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Vittorio “Lolo” Tricca, l’uomo della balestra (e non solo!)

La vita di un personaggio del secolo scorso legato a uno dei simboli della città di Sansepolcro

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Quando stavamo per entrare nell’anno 2000, il nostro spirito giornalistico ci spinse a fare un compendio dell’intero secolo, il ventesimo, che stava per concludersi e di indicare – oltre ai fatti – anche i personaggi che lo avevano caratterizzato a Sansepolcro. Fra questi, non avemmo alcuna esitazione nell’inserire a pieno titolo anche Vittorio Tricca, per molti noto come “Lolo” e non “Lollo” (come qualcuno era solito pronunciare), figura di indubbia personalità e carisma con l’immancabile pipa e anche il sigaro toscano che sicuramente facevano parte della sua immagine, ma che allo stesso tempo ne disegnavano i lineamenti di un uomo calmo e riflessivo, anche se determinato al momento giusto. Dire Vittorio Tricca significa ovviamente, per i biturgensi, dire doppiamente balestra: perché era un tiratore di vecchia data e perché “La Balestra” è l’albergo che ha costruito assieme alla famiglia e che resta sicuramente il segnale più tangibile di ciò che ha fatto in vita, per quanto sia l’ultimo di un percorso giovanile intenso, accompagnato dalla guerra, dal trasferimento a Parigi per motivi di lavoro e anche da altre vicissitudini che hanno fatto capire come questo signore abbia saputo conquistarsi la stima della sua città, lavorando sodo e dimostrando che la grandezza e la felicità più grande – come ebbe a dire Confucio – “non sta nel non cadere mai, ma nel sapersi risollevare dopo ogni caduta”. Vittorio “Lolo” Tricca è uno di questi (più che di cadute, potremmo parlare di momenti difficoltà) e appartiene a quella generazione di uomini che hanno segnato un’epoca in città; uomini che i biturgensi stessi hanno consegnato alla storia, in quanto figure indimenticabili, che hanno aiutato famiglie del Borgo, contribuendo al loro benessere e a quello di una città che negli anni ’60 e ’70 era la spedita “locomotiva economica” della vallata: l’accostamento ai vari Luigi Giovagnoli, Luigi Batti, Luigi Fabbri e Francesco Franceschini è pertanto scontato e non soltanto perché si trattasse anche dei balestrieri più conosciuti di quel periodo. In ambito familiare, oltre 50 anni vissuti insieme alla moglie Cesira, “anima” numero uno della cucina del ristorante con l’ausilio per l’albergo del figlio maggiore, Francesco (per tutti Franco), morto nel 2012, mentre il secondo maschio, l’ingegnere Mario, ha vissuto gran parte della sua vita a Firenze per motivi professionali e poi è tornato a Sansepolcro; il terzogenito, Giovanni, è senza dubbio il più conosciuto, avendo un passato da assessore a Sansepolcro e nell’allora Comunità Montana Valtiberina Toscana, più la parentesi che lo ha visto alla presidenza della Camera di Commercio di Arezzo. Con i due figli rimasti, molto entusiasti nel dedicare questo speciale a un padre del quale sono andati sempre orgogliosi, andiamo a ripercorrere la vita di Vittorio Tricca.

 

L’IMPORTANTE RUOLO RICOPERTO NELLA BUITONI A PARIGI E I RISVOLTI DELLA GUERRA

Era nato a Sansepolcro il 25 febbraio 1910 e non era da tutti, quasi cento anni fa, poter frequentare l’avviamento (antesignano della scuola media inferiore) per poi proseguire al tecnico commerciale. Con il diploma in tasca – non a caso, fra i tanti appellativi in suo nel gergo comune c’era anche quello di “ragionier Tricca” – all’età di appena 18-19 anni il giovane Vittorio si dà subito da fare: assieme a Varo Brilli, padre del professor Attilio e di Brunetto, partecipa a una gara indetta dal Comune di Arezzo per i coperchi degli acquedotti. Quella è la sua prima attività lavorativa. “I coperchi erano contrassegnati dalla scritta T.B., che sta per Tricca e Brilli – spiegano Mario e Giovanni Tricca – e ancora in via Giovanni Buitoni si trovano vecchi pezzi con quella sigla”. Una breve ma pur sempre significativa esperienza, alla quale segue l’assunzione alla Buitoni quando lui è ancora poco più che 20enne e con una mansione della massima responsabilità: “Si occupava della essiccazione della pasta – ricordano i figli – ed era stato preso in considerazione dall’azienda, nonostante la sua giovane età, tant’è che nel 1934 viene inviato a Parigi; anche in Francia, il babbo si occupa della direzione tecnica dell’essicazione della pasta nello stabilimento ubicato per la precisione a Saint Maure des Fossès. Sono tanti i biturgensi emigrati assieme a lui per lavorare alla Buitoni: fra questi, la più nota in città è stata senza dubbio Irma Vandi. Lo stabilimento funziona molto bene e il prodotto più diffuso sono i ravioli in scatola”. Nel frattempo – e sempre in età giovane – Vittorio si era sposato con Cesira Crociani e proprio a Parigi, nel 1937, era nato il figlio maggiore, Franco. Ma in agguato c’è la guerra e come si balena l’idea che questa potesse scoppiare da un momento all’altro, Vittorio si preoccupa di rimandare a casa moglie e figlio; una mossa provvidenziale, perché più avanti i lavoratori italiani della Buitoni verranno chiusi in un treno e spediti in un campo di concentramento; ci vorrà l’intervento del nostro governo nazionale per toglierli da quel luogo e rispedirli a casa. “Nella storia di nostro padre, quindi, ci sono anche due mesi vissuti in un campo di concentramento – sono sempre Mario e Giovanni a parlare – e lui era ripartito dopo la nascita mia (è Mario che specifica n.d.a.) nel 1940 a Sansepolcro”. Nel dopoguerra, lo stabilimento Buitoni sarebbe stato spostato a Grenoble e del giovane Vittorio Tricca vi sono foto che lo ritraggono nelle vesti anche di sportivo. “C’era il dopolavoro del Cral Buitoni – ricorda l’altro figlio, Giovanni – che era soprattutto una realtà a scopo ricreativo, ma l’attività sportiva e la cura del fisico facevano parte della cultura fascista, per cui l’importante era svolgere attività motorie”.

 

DALLA PASTA ALLA CALCE, POI L’APPRODO NELL’ATTUALE VIA DEI MONTEFELTRO

La seconda guerra mondiale si conclude e Vittorio Tricca inizia la terza avventura imprenditoriale: dopo i coperchi degli acquedotti e l’essiccazione della pasta Buitoni, ecco la calce. D’altronde, le ferite lasciate dal conflitto bellico sono tante e tali che la priorità del momento è una e soltanto una: la ricostruzione. Diventa titolare di una fornace alla (vecchia) Madonnuccia di Pieve Santo Stefano e, non essendovi il cemento, si ricorreva alla calce. Due i forni presenti nella frazione pievana: l’altro era quello della famiglia Dini. “Nella fornace del babbo – tengono a evidenziare Mario e Giovanni Tricca - vennero realizzati dei blocchi in calce e argilla, prima che a Sansepolcro rilevasse la fabbrica dei mattoni”. Siamo a metà degli anni ’50 - proprio nel 1955 – e a livello di logistica Vittorio Tricca individua a Sansepolcro l’area che diventerà l’approdo definitivo per lui e per la famiglia. Avete presente la zona in cui si trova l’hotel La Balestra? Siamo in via dei Montefeltro, lungo la ex statale 3 bis, a metà strada fra San Lazzaro e Porta Romana. Ebbene, una sessantina di anni fa lo scenario era ben diverso da quello di oggi: “Al posto dell’albergo – illustra Giovanni - c’era appunto la già ricordata fabbrica di mattoni della signora Bastianoni di Selci Lama, che venne rilevata dal babbo. Anche la viabilità non era quella di adesso: la strada principale era via Anconetana e una secondaria permetteva il collegamento con la zona della Palazzetta; più tardi venne costruita la 3 bis e per fare posto alle due corsie venne sacrificato il fossato della fortezza. Oltre che i mattoni, continuò a fare anche la calce nella fornace che esisteva dietro l’odierna facciata principale dell’albergo e che è stata in attività fino alla fine degli anni ‘60: era la famiglia Alberti, residente a due passi in quella che ancora oggi si chiama via Madonna della Legna, che provvedeva alla calce. Verso la fine degli anni ’50, quella zona comincia a diventare vitale, perché vi vengono impiantati la barbieria, la stazione di rifornimento carburante con tanto di lavaggio, il bar e il ristorante. Il barbiere in questione è Girolamo Poggini, l’indimenticato “Pipi” ed è Giovanni Tricca a inquadrare il ruolo rivestito dalle barbierie in quel preciso contesto storico: “Alla fine degli anni ’50, tutte le barbierie avevano le docce perché in questo luogo non si andava soltanto per tagliare i capelli o fare la barba, ma anche per lavarsi. Ebbene, circa 60 anni fa soltanto l’8% delle famiglie di Sansepolcro aveva il bagno in casa e dal “Pipi” le docce erano quattro. La stazione di rifornimento era sotto il marchio della società petrolifera lombarda Ozo, tant’è vero che a lungo nel gergo locale - anche dopo la realizzazione dell’hotel La Balestra - per indicare coloro che si recavano al ristorante vicino alle pompe di benzina, in molti continuavano a dire che “andavano a mangiare all’Ozo”. Dall’Ozo, il passaggio a un altro marchio, “L’Aquila” di Trieste, prima che la Total li inglobi tutti. Con il passaggio alla Total, arriva quale gestore Mario Tognelli, ex ragazzo di bottega della cartoleria Bigi che andava a distribuire i quotidiani a domicilio: la stazione di rifornimento, completa anche di gasolio e lavaggio, subirà progressivi ridimensionamenti fino alla definitiva chiusura nell’estate del 1991.

 

DAL RISTORANTE ALLA COSTRUZIONE DELL’HOTEL “LA BALESTRA”: E’ IL 1968

Il ristorante viene dato in gestione almeno un paio di volte, ma di fatto non riesce a decollare: qui arriva persino un signore di Roma (non ricordiamo nome e cognome) che è noto per essere il “mago” del pollo alla diavola, ma che un bel mattino si sarebbe dileguato senza più farsi rivedere. Migliore la fortuna del bar, che allora veniva chiamato caffè: vi era la pista da ballo all’aria aperta (come riferisce anche Fausto Braganti in uno dei suoi tanti “M’arcordo… “) e la musica era quella del juke-box. In estate vi era la possibilità di ballare tutte le sere: erano gli anni nei quali impazzavano le canzoni di Paul Anka e dei “Platters” e probabilmente il bar dell’Ozo è stato galeotto per qualche coppia, perché le stradine al buio offrivano l’occasione ai ragazzi più svegli di riaccompagnare a casa qualche ragazza e magari anche di salutarla con un bacio. Non solo: oltre alla musica e al ballo, c’era anche un mito nascente, chiamato televisione. “I televisori non erano di certo presenti in tutte le case - prosegue Giovanni Tricca - ma per fortuna ce n’era uno all’Ozo e quando andavano in onda programmi di vasta popolarità come “Lascia o raddoppia” il locale al coperto non era sufficiente; un pari numero di sedie veniva sistemato fuori per dare a tutti la possibilità di vedere la tv. Ultimo passaggio: la nascita dell’hotel La Balestra. “Il salto di qualità decisivo che i nostri genitori hanno voluto fare – rimarcano Mario e Giovanni - coinvolgendo tutti noi, anche se poi è stato il nostro fratello maggiore, Franco, a dedicarsi a tempo pieno all’attività assieme alla mamma e al babbo, perché noi due abbiamo studiato e quindi ci siamo indirizzati in settori diversi”. Nell’estate del 1968, quindi mezzo secolo fa esatto, l’impresa edile di un altro grande biturgense, il “sor” Andrea Pasquini, ridisegna l’aspetto di quella zona con un elegante edificio a due e tre piani e Sansepolcro può ben fregiarsi di avere l’hotel ristorante “La Balestra”, contrassegnato dalle 4 stelle ed esempio in assoluto di modernità in fatto di ricezione alberghiera. Tutt’oggi, seppure con i ritocchi apportati e con un ampliamento nel tempo, la struttura originaria è rimasta la stessa. È il capolavoro della famiglia Tricca: ben presto, la fama de “La Balestra” si allarga in tutta la vallata e oltre ambito, grazie all’alta qualità sia della cucina che dell’ospitalità, in anni nei quali l’aria condizionata, la tv e il frigorifero in camera sono prerogativa di pochi . Per i residenti del Borgo e del vicinato, un pranzo o una cena a “La Balestra” hanno quasi il sapore di una promozione dal punto di vista sociale, oltre che di una scelta di gran gusto; nei referendum provinciali affidati ai gusti della clientela, “La Balestra” è impegnata in un costante “testa a testa” con i più prestigiosi locali e per qualsiasi tipo di cerimonia diventa il luogo in assoluto più ricercato. Per anni e anni, “La Balestra” è il locale preferito dalle coppie per il giorno più bello della loro vita, sabato o domenica che fosse; spesso, lo staff gestisce pure due matrimoni in contemporanea e più volte nei fine settimana, all’ingresso dal piazzale, spunta immancabile il cartello con scritto “Il ristorante è completo”. Non solo: comitive e squadre di calcio impegnate a Sansepolcro e in Valtiberina l’hanno scelto come posto fisso per il pranzo e per il pernottamento. E quando, oltre che allo Spino, si gareggiava in salita con le auto anche a Bocca Trabaria, piloti quali Arturo Merzario, Mauro Nesti e Domenico Scola erano di casa. Di Vittorio Tricca, artefice del successo, ricordiamo il ruolo particolare che ricopre: al mattino, si mette a disposizione, guidando il pullmino aziendale per recarsi a fare la spesa di giornata e per andare a prendere e a riaccompagnare a casa il personale, in particolare le donne della cucina e delle pulizie, che non hanno la patente. Poi, però, diventa il cerimoniere della situazione, con la pipa o con il sigaro sempre appresso: è lui la figura carismatica di riferimento, modificando anche il gergo comune, che dal ristorante dell’Ozo è passato all’albergo del Tricca. Per chiunque si rechi a mangiare lì, il saluto a Vittorio diventa un doveroso quanto sentito omaggio, se non altro per la soddisfazione di dirgli di persona che a tavola si era trovato benissimo. Nel caso, comunque, provvede Vittorio stesso a fare il giro e a sincerarsi che tutto sia a posto. Anche l’hotel “La Balestra” è dunque simbolo di una precisa epoca per Sansepolcro: quella che vede crescere la città dal punto di vista economico, sociale e culturale. Il lavoro c’è per tutti, marito e moglie e anche il figlio di un operaio e di una casalinga può permettersi gli studi universitari. La Buitoni è sempre forza motrice di tutto (ma non c’è solo quella) e il ceto medio è a sua volta la forza della città. Per dirla con una battuta, è un Borgo che si è… imborghesito!

 

“RE DELLA BALESTRA” SENZA COLLARE

Ha tirato con la balestra fino all’ultimo: il destino gli ha negato di partecipare alla secolare sfida con Gubbio del settembre 1992, quella legata al 500enario della morte di Piero della Francesca. Vittorio Tricca, rimasto vedovo nel 1989, era deceduto il 13 giugno precedente, all’età di 82 anni compiuti. Il suo nome è legato indissolubilmente a quello della Società Balestrieri e al Palio. È stato presidente onorario del glorioso sodalizio armigero biturgense, che da molti anni gli dedica una delle gare interne, denominata appunto “Memorial Vittorio Tricca”. La nobile arte del tiro con la balestra antica all’italiana è una tradizione di famiglia, come vi è un’arma che appartiene alla famiglia: “Si parte da Luigi, zio del babbo – dice Giovanni – e si prosegue con mio nonno, che si chiamava Giovanni anche lui; è stato tiratore mio fratello Franco, lo sono stato io e lo è tuttora l’altro fratello, Mario assieme al figlio Alberto Vittorio, unico nipote maschio”. Aveva soltanto 16 anni, nel 1926, quando Vittorio si aggiudicò il primo Palio, ma sarebbe diventato grande protagonista soprattutto negli anni ’50 e ’60, vincendo diverse edizioni e piazzandosi in altrettante. A Sansepolcro, contro gli storici rivali di Gubbio, ha colto altre due affermazioni, nel 1962 e nel 1967, più quella del 1964, unico anno nel quale per contrasti fra le società biturgense ed eugubina la sfida non è andata in scena, sostituita da un Palio fra Porta Romana e Porta Fiorentina, nel quale ha prevalso sul figlio Mario. Sempre al Borgo, ha un terzo posto nel 1957, mentre a Gubbio si è piazzato secondo nel 1953. Nell’altra più sentita, ovvero il Palio di Sant’Egidio, Vittorio Tricca ha trionfato quattro volte, negli anni 1952, 1962, 1965 e 1968. Gli avversari biturgensi più temibili erano in fondo i suoi grandi amici: abbiamo già citato Luigi Giovagnoli, Luigi Batti e Francesco Franceschini, ma in quel periodo andavano forte anche Aleardo Guidobaldi, Romero Parronchi e successivamente anche Antonio Massi. Era comunque la “dinastia” Tricca ad andare forte: due vittorie per Mario, un collare di “Re della Balestra” al torneo nazionale per Giovanni e diversi piazzamenti di prestigio per Franco. L’ultimo acuto di Vittorio Tricca nell’agosto del 1986 a Gubbio, in occasione del Torneo Nazionale con la Balestra Antica all’Italiana fra le cinque città allora federate: all’età di 76 anni, era riuscito a vincere il titolo italiano a squadre, a qualificarsi per l’individuale e a scoccare la verretta più precisa a corniolo. Mancava un solo tiro alla conclusione e stava oramai praticamente per indossare il collare d’oro: la traiettoria dell’ultima freccia viene deviata dalla coda di una conficcata e questa correzione significa vittoria per Leonardo Panci di Massa Marittima. Vittorio Tricca, superato in extremis, deve perciò accontentarsi del secondo posto. “Erano altri tempi anche per tirare con la balestra – riprende la parola il figlio Mario – e mi riferisco a quelli degli anni ’60, quando la balestra era un’arma molto più artigianale e meno potente di ora; l’arco non era forgiato a macchina come adesso e il compito di centrare il corniolo era quindi più difficile. Mi ricordo i pomeriggi trascorsi al campo di prova di Porta del Castello, quando le correzioni si apportavano mettendo le zeppe. Oggi la tecnica ha reso le balestre delle armi perfette, ma allora la messa a punto era molto difficile e in queste condizioni si andava a tirare in piazza: le noci, per esempio (cioè il pezzo metallico che contiene il solco nel quale si posiziona la coda della verretta), erano in avorio e si consumavano, per cui le zeppe ci volevano anche lì. Io ero allora un ragazzo che scalpitava per ore, mentre il babbo metteva a posto l’arma con la pipa in bocca, indice di una calma olimpica. Anche le stesse frecce avevano la coda incava per incastrarsi nella corda; oggi non c’è più bisogno e la coda non presenta incavature. Vento e andamento atmosferico erano l’altra grande variabile in piazza, pertanto – al contrario di quanto avviene oggi – nei Palii di allora il corniolo non era imbottito di frecce; anzi, erano poche quelle che lo violavano e si usava mettere in azione il rullo dei tamburi ogni qualvolta un balestriere vi riusciva. Vittorio aveva 6 nipoti: Elena, Daniela, Monica, Luisa, Giulia e Alberto Vittorio; la balestra con la quale tirava – per suo espresso desiderio – è finita in uso ad Alberto Vittorio, poiché primo e anche unico nipote maschio, come già specificato e quindi come testimone di una tradizione che non avrebbe dovuto interrompersi. Proprio Alberto Vittorio è stato capace di aggiudicarsi una edizione del memorial dedicato al nonno: “Una vittoria del tutto particolare – ricorda Alberto Vittorio – perché ottenuta poco dopo che era morto lo zio Franco”. Di nonno Vittorio cosa ricorda? “Avevo soltanto 12 anni quando se n’è andato per sempre e quindi ho vissuto molto poco assieme a lui. Ricordo molto bene che il giorno del suo funerale fu una processione infinita dal duomo fino al cimitero e allora capii quanto la gente gli aveva voluto bene. Era il nonno che mi dava le caramelle al miele, ma che mi avrebbe voluto vedere adolescente e anche maturo per potersi se non altro relazionare in un’altra maniera”.

 

L’ATTACCAMENTO AL LAVORO E L’ALLERGIA PER LA POLITICA

Perché era chiamato con il nomignolo di “Lolo”? “Non esiste una spiegazione specifica – dicono sorridendo Mario e Giovanni – né sappiamo chi glielo possa avere messo. L’unico nesso logico può essere semmai questo: al Borgo esistevano il “Lili” e la “Lala”, mancava solo il “Lolo!”. Tutto qui”. Un tipico padre di famiglia amante della goliardia? “Quello sì, ma non era il solo: la cerchia di amici comprendeva il commendator Silvio Nardi, Galliano Calli e Milton Poggini. Si mettevano su a vicenda, ma agivano sempre con eleganza”. E ci risulta che un paio di suoi grandi amici erano anche grandi letterati: “Sì, in particolare Carlo Bo, che è stato rettore dell’Università di Urbino. Erano soliti telefonarsi e vedersi con una certa frequenza, ma qui da noi il premio nobel Salvatore Quasimodo trovò nel 1965 l’ispirazione per la poesia “Balestrieri Toscani”, quale omaggio alla società di Sansepolcro. Oltre alla passione per la balestra, era anche cavaliere del Santo Sepolcro”. E la politica? “Aveva quasi un senso di repulsione nei suoi confronti, perché la considerava l’antitesi del lavoro. Quando gli chiedevano “Sei impegnato in politica?”, lui rispondeva a tono: “No, io lavoro”. Due distinte concezioni, al punto tale che il figlio Giovanni riporta con il sorriso una scenetta simpatica: “Ero assessore in Comune e un giorno squillò il telefono in casa; all’altro capo c’era un signore che educatamente disse: “Buongiorno, parlo con l’abitazione dell’assessore Tricca?”. Pronta la sua risposta del babbo: “Questa è una famiglia sana, non ci sono assessori”. Molto rigido, come si può evincere”. E allora – domanda rivolta a Giovanni – non apprezzava molto il fatto che lei facesse l’assessore? “Esternamente, non mi ha mai mostrato una soddisfazione particolare, ma voglio pensare che dentro di sé non fosse poi nemmeno tanto contrario, come cercava di far credere”. L’insegnamento più bello che vi ha lasciato? “Oltre all’amore verso la famiglia, l’importanza del carattere e dell’onestà. Ci ha sempre detto – e anche dimostrato con i fatti – che sono le armi più efficaci nei momenti facili e soprattutto in quelli di difficoltà, perché lui li ha attraversati. E li ha superati solo ed esclusivamente con il duro lavoro: ecco perché forse non amava la politica, che molto spesso è invece fatta di chiacchiere”.                 

Eco del Tevere
© Riproduzione riservata
21/08/2018 11:59:56


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