Rubrica Lettere alla Redazione
Asilo Cavour. Declino e fine d’una grande tradizione
La solita deprimente incuria nei confronti delle più belle e care istituzioni castellane
IL RICORDO. Il più vecchio di noi contava cinque anni. L’austero asilo ci aspettava già pronti con lo “zzinalino” a quadrettini e - stretto stretto in mano - il “pagnerino” con la merenda a sorpresa. Si passava dalla porta a vetri. Di là non c’era più casa. I “pagnerini” posati diligentemente l’uno accanto all’altro, obbedienti a una disciplina che ci annunciava e imponeva qualcosa di diverso. Un odore misto di nitore, cucina sobria, sapone e malinconiche attese. La “madre” suor Alfonsina, algida e slanciata, aveva un che di aristocratico. Non tradiva emozioni: dirigeva con lo sguardo. E non era raggiungibile da tutti. Poi c’erano le altre mamme, quelle vere. Qualcuno di noi (io non l’ho mai fatto) s’attaccava alla maniglia di quella porta che segnava un distacco troppo crudo, troppo forte. Non mollava la presa. No, se avesse potuto scegliere, non sarebbe passato oltre. La mamma aveva fretta, doveva andare al lavoro e collaborava con la maestra nel trascinare il figlio dall’altra parte. Un cinismo impetuoso e falso ed era un sussulto nel luogo del sentimento: un debito dal sapore dolce-amaro maturava in lei fino alla sera. Poi era l’abitudine, dentro o fuori decideva il tempo: o erano fiabe, Pinocchio… Cappuccetto Rosso (una passeggiata nel mondo della suggestione) o noiosi giochi con le carte, oppure ancora il girotondo. Fuori era un’altra cosa. Tutti nel cortile a ridosso delle mura. Sfidarsi e rincorrersi a “chiaparèla” era il più bel gioco; ma c’era anche il “filetto” disegnato coi gessetti sulle scabre panche di pietra. Ma soprattutto si giocava a non so che cosa. Si giocava e basta. Ma la mamma non si allontanava mai dai nostri pensieri: perché - mi chiedo - la nostra generazione ha amato così tanto la mamma? Sul lato opposto, a nord, c’era il giardino con la vasca dei pesci rossi. Un contenuto mistero. Ma ci portavano da quella parte soltanto pochissime volte. I pesciolini ormai se ne sono andati per la semplice ragione che non c’è più la vasca. A mezzogiorno era la minestrina con un gusto e un odore che ti s’inchiodano per sempre nella mente. Dopo la merenda arrivavano le quattro. Tutti i giorni. “C’è il tuo babbo”… ed era casa! Mi portava nella bottega dove, d’inverno, aveva già preparato un baldacchino per scaldarmi vicino alla forgia. Osservavo il mio babbo fabbro, la sua tenacia in quel duro lavoro e quando con le mani nude rimuoveva i carboni ardenti, ecco, a me sembrava l’Eroe perfetto! Questo è stato per me, e per tre anni, l’asilo Cavour.
IL RIMPIANTO. La solita indifferenza e la deprimente incuria nei confronti delle più belle e care istituzioni castellane – congiunte a una politica da insufficienza piena - hanno decretato la fine d’un patrimonio reale, certo, ma anche sentimentale. Parlano, parlano tanto di “memoria” e puntualmente tutto finisce nell’oblio e nel tirare a campare. E tutti zitti, per carità. Mi dicono che il Cavour sia di proprietà d’una banca e sarebbe in vendita come se fosse niente. Ma che vergogna! Che valore economico si potrebbe dare ai ricordi, alle lacrime, alle garrule voci dei ragazzini, a quei poveri cestini di cartone pressato, alle prime pudiche amicizie, ai salti al collo, alla gioia di esserci e poi di non esserci… Si è trattato d’un passaggio educativo quasi obbligato che ancora vive e si agita nell’animo di generazioni di castellani. L’asilo Cavour è di una banca (vorrei non crederci), perché non è rimasto alla città, a tutti noi? Abbiamo perso tante cose, abbiamo perso il treno e in ogni senso. Anche quello sui binari. A chi toccherà la prossima volta?
Francesco Grilli
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