Rubrica Lettere alla Redazione

I padroni del Pionta ad Arezzo sono i spacciatori di droga: non disturbateli

“Lasciate ogni speranza voi che entrate al Pionta (a vostro rischio e pericolo)”

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Il colle del Pionta si trova a due passi dalla casa dove ho trascorso la gioventù. Sono cresciuto di fronte al vecchio Brefotrofio, quando l’area del parco era ancora un recinto destinato ai malati di mente e vietato ai “normali”. Forse anche per questo, perché era zona off-limits, che entrarvi era il sogno di molti ragazzi cresciuti tra via Curtatone e via del Trionfo, tra Maccagnolo, le case popolari e quelle dei Ferrovieri, ai limiti della città che in quei primi anni sessanta si stava vertiginosamente espandendo verso sud, lungo la direttrice di via Cristoforo Colombo, alla scoperta di un nuovo mondo. “Cosa ci sarà lì dentro?” – mi chiedevo, con la stessa curiosità con cui smontavo i giocattoli e, per quella innata dose di follia che c’è nei giovanissimi, più del timore valeva la voglia d’avventura e la curiosità di vedere cosa c’era oltre quel recinto proibito. Poi, all’inizio degli anni novanta del secolo scorso, scese da Gorizia il professor Pirella a liberare gli ospiti e l’area del parco pubblico, che diventò subito il mio preferito. Non poteva essere che così, per la mia storia personale e per quella ben più importante della mia città. Su questo colle, ai piedi del quale hanno trovato casa il nuovo Ospedale e l’Università, lungo la direttrice per Roma, è nato e cresciuto il cristianesimo ad Arezzo tanto che, a buon diritto, un grande studioso di storia patria come monsignor Tafi l’ha definito: il Vaticano Aretino. Qui si trova la tomba di San Donato patrono della città e ciò che resta dell’antica cattedrale di Santo Stefano. Sotto la sua coltre erbosa è sepolto il tempio che, all’epoca dei grandi vescovi longobardi poco dopo l’anno Mille, Maginardo volle splendido come quello di San Vitale in Ravenna. Qui, nella canonica annessa al Duomo Vecchio, Guido Monaco compose il suo Micrologo e qui, fino dall’epoca etrusca, gli aretini hanno seppellito per millenni i loro cari. Per tutte queste ragioni, il Pionta, è un luogo aretino per eccellenza, un reliquiario a cielo aperto della memoria della città, sebbene pochi se ne rendano conto o se ne infischino, a cominciare dalle Istituzioni preposte al suo decoro e alla sua integrità. L’altro ieri, dietro una splendida giornata di sole ero salito al Pionta da via del Duomo Vecchio e avevo approfittato delle condizioni di luce per fare alcuni scatti, quando degli estranei mi si sono avvicinati e, in tono minaccioso, uno di loro mi ha intimato di non scattare foto! Erano in quattro, erano giovani, erano grossi, erano arrabbiati ed erano neri, ma considero l’ultimo particolare necessario solo ai fini del racconto. Insomma non sono vittima della temperie dilagante in Italia e nel mondo, ma ho obbedito al sopruso senza combattere. Che altro potevo fare? Mai in vita mia, però, mi sono sentito altrettanto umiliato e offeso nell’intimo e, se lo sguardo avesse potuto colpire come un proiettile, avrei fatto quattro vittime, Dio mi perdoni, senza nemmeno troppo rimorso. Siccome nel parco si trovava una volante della Polizia, allora mi sono avvicinato e ho raccontato l’accaduto ai tutori dell’ordine: “Non siamo più padroni nemmeno a casa nostra!” – mi ha risposto quello dei due che era alla guida. Come dire: così è e non c’è niente da fare, “lasciate ogni speranza voi che ch’entrate al Pionta (a vostro rischio e pericolo) e più non dimandate”. La volante è rimasta inchiodata al suo posto e io me sono andato perché evidentemente, al Pionta, è consentito spacciare la droga, ma non si può passeggiare e scattare foto, per non arrecare disturbo ai traffici quotidiani che si svolgono alla luce del sole intorno al Duomo Vecchio, senza che nessuno veda e, men che meno, intervenga. Roba che, perfino Cosimo dei Medici, che pure fece minare quel sacro edificio, si rivolta nella tomba. Esco dal parco come esce uno buttato fuori da casa sua e mi chiedo: “Dobbiamo forse fare le ronde padane, per liberare il Pionta, la nostra cittadinanza e noi stessi?”  Sono passati alcuni giorni e ancora non ce la faccio a digerire quello che mi è capitato. Lo trovo intollerabile e non posso tenere la cosa sepolta nella cantina, dove ciascuno ripone i ricordi più ingombranti. Per questo ho deciso di rendere pubblica, e sia ben chiaro non a strumentali fini politici, la brutta esperienza che ho vissuto come una violenza inaudita, che mi ha umiliato e offeso nel profondo, come persona, come aretino e come cittadino italiano.

 

 

Giorgio Ciofini
© Riproduzione riservata
12/12/2018 18:48:40


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