L’Afghanistan pacificato e il possibile ritorno dei Talebani che gela il sangue alle donne
I negoziati con gli Stati Uniti prevedono il ritiro del contingente internazionale
«Non vogliamo una pace che peggiorerà la condizione dei diritti delle donne» dice al New York Times Robina Hamdard, capo del dipartimento legale dell’Afghan Women’s Network. Le voci sono tante, la preoccupazione è una sola. «Desideriamo la fine del conflitto ma non a tutti i costi» insiste dal suo posto in Parlamento Rahima Jami, una ex preside che nel 1996, dopo l’ingresso dei talebani a Kabul, fu licenziata (solo le dottoresse potevano lavorare e solo negli ambulatori femminili), obbligata ad uscire di casa esclusivamente indossando il burqa e picchiata a sangue il giorno in cui la polizia del Comitato per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio scorse la punta del suo piede fare capolino da sotto la mortificante tunica azzurra divenuta nel frattempo il simbolo dell’oppressione nel nome di Allah.
C’è indubbiamente del vero nei tanti punti interrogativi della seconda metà del cielo afgano. Difficile scommettere sulle buone intenzioni degli integerrimi studenti coranici che ieri lapidavano le adultere al centro dello Stadio di Kabul e oggi s’impegnano con il negoziatore americano Zalmay Khalilzad a ripulire il Paese dal terrorismo, impedendo di fatto che diventi la piattaforma operativa di al Qaeda e dell’Isis, ricevendone in cambio un indiretto riconoscimento politico, un lasciapassare per occuparsi dei propri affari interni senza interferenze.
La pace va firmata con i nemici, un’evidenza su cui neppure gli idealisti meno pragmatici potrebbero dissentire. Anche perché dopo aver combattuto per anni nelle retrovie più rocciose ed ostili i talebani hanno recuperato terreno. Secondo un recente studio del Long War Journal se i governativi controllano oggi 146 distretti, i talebani ne hanno in pugno almeno 52 abitati da quasi 17 milioni di persone (oltre il 50% della popolazione) e ben 198 sono aspramente contesi. Un dato di fatto ben noto al Congresso americano, consapevole di quanto gli alleati del governo ufficiale afgano siano arretrati sia sul terreno bellico quanto nel consenso popolare, laddove la corruzione di Kabul ha finito per far rivalutare il giogo di ferro ma a welfare garantito dei fondamentalisti di Dio (una delle condizioni poste da Washington sarebbe il dialogo diretto tra i Talebani e Kabul).
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