Opinionisti Claudio Cherubini

Un mestiere scomparso: il sensale

Questo mestiere, da sempre presente nei mercati era disprezzato e considerato di basso livello

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Ai primi del Novecento in tutta la provincia di Arezzo le fiere e i mercati erano numerosi e ovunque, anche se Carlo Signorini, segretario della Camera di Commercio ed Arti, scriveva: “Nella nostra provincia per le mutate condizioni dei tempi, per lo sviluppo delle comunicazioni ferroviarie e della celerità dei trasporti tanto le fiere, quanto i mercati hanno perduto grandemente della loro importanza con danno del capoluogo che dallo incremento dei mezzi di trasporto nelle vie ferrate non ha saputo giovarsi per conservare i suoi traffici che in piccolissima parte”. Il Signorini lamentava la concorrenza della nascente industria che accettava commissioni di acquisto da ogni parte d’Italia e che così aveva fatto sparire il mercato all’ingrosso e ridotto al consumo locale quello al dettaglio. Le fiere e i mercati restavano comunque un luogo d’incontro dove venditori ambulanti e qualche contadino offrivano le proprie mercanzie, ma erano anche l’occasione per fare gli affari più diversi fra chi possedeva qualcosa da vendere e chi desiderava acquistare. Per questo un ruolo fondamentale era svolto da un particolare procacciatore d’affari, cioè un terzo soggetto, oltre il venditore e l’acquirente, che aveva il compito di far incontrare le due parti e mediare tra i due fino alla conclusione dell’affare: il sensale (dall’arabo simsar, dal persiano sapsar, dal latino sansarius).

Questo mestiere, da sempre presente nei mercati, probabilmente anche prima della moneta, già nel pensiero di Platone era disprezzato e considerato di basso livello perché abituava all’inganno e all’impudenza. Non di miglior fama godeva nell’antica Roma, dove, fra gli altri Cicerone, sosteneva che era una professione di mercenari. Con lo sviluppo dell’economia mercantile, nel basso medioevo i mediatori acquistarono un ruolo riconosciuto e regolato, fino a divenire nei secoli successivi ausiliari indispensabili dello scambio economico, anche se la loro fama ancestrale non li abbandonerà mai completamente. D’altra parte tutto il loro operato si fondava sull’ottenimento della fiducia dei due soggetti da mediare e un sentimento così forte poteva lasciare qualche risentimento quando venivano scoperti degli inganni o delle frodi, stimolate anche da una giurisprudenza inadeguata. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento l’istituzione di fiere e mercati mensili in ogni comune e nelle principali frazioni, aveva anche lo scopo di educare il contadino all’acquisto e ridimensionare il compito del sensale, tentando di limitarlo alla contrattazione del prezzo e delle altre condizioni di vendita. 

Tuttavia la figura del sensale rimase fondamentale fin verso la fine del XX secolo, fin quando l’economia restò fondata sull’agricoltura. Come testimonia Alvaro Bacci, contadino e poi sensale presso la fattoria del Borro in Casentino, “i contadini erano analfabeti e arretrati e senza il mediatore non avrebbero potuto né comprare né vendere le bestie: non erano all’altezza di cavarsela da soli e per questo il sensale era importantissimo”(cfr. F. Gori, I mediatori di bestiame tra teoria e storia economica, San Giovanni Valdarno 1999). Questo non significa che i sensali fossero tutti istruiti, mentre indubbiamente erano persone con qualità intellettive superiori alla media. Ad esempio il sensale più rinomato di Palazzo del Pero, Silvio Falcinelli, da tutti conosciuto con il nome di Silvestro, abbreviato anche in ‘Vestro’, la cui attività nella prima metà del Novecento spaziò dal mercato umbro di Città di Castello a quelli toscani di Castiglion Fiorentino, Arezzo e Anghiari, era analfabeta. Racconta il nipote Corrado che “Lui aveva un librettino e faceva delle asticelle: più lunghe, più corte. A seconda della lunghezza lui capiva tutto quello che si doveva ricordare”. Altri due sensali di Palazzo del Pero, Agostino Marchi e Guido Capacci,  avevano solo l’istruzione delle scuole elementari. Erano autodidatti che compensavano la loro scarsa preparazione scolastica con molte letture, come si dice del Marchi, e con l’intuito e la volontà, come si racconta del Capacci. Di sicuro avevano la dote di sapersi relazionare con gli altri e di guadagnarsi la loro stima.

I sensali trattavano di tutto sia nelle fiere che nella vita quotidiana e potevano essere chiamati a stimare ogni cosa dagli animali, agli attrezzi, ai piatti e ai bicchieri. Non solo intervenivano nella contrattazione in cui c’era da mettere d’accordo un acquirente con un venditore, ma anche quando c’era da fare delle stime di beni per divisioni tra fratelli oppure per un contadino che cambiava podere, e qui in Toscana (ma non nel resto d’Italia) sostituendosi ai fattori, fino alla ‘valutazione delle cose vive e delle cose morte’ alla fine di un contratto di mezzadria.

Per fare questo dovevano raccogliere tante più informazioni che potevano, necessarie per svolgere quel ruolo di garante che era l’aspetto più importante nella trattativa. Per questo si diceva: “Il mediatore è un mestiere creato sulle chiacchiere” (cfr. F. Gori, cit.). Il mercato per definizione è il luogo più facile dove acquisire informazioni ed era prassi anche al mercato di Arezzo, al termine, quando non c’era più alcun affare da concludere, prima di tornare alle proprie case, che gli stessi sensali si ritrovassero fra di loro a parlare.

In un economia agricola, come anche quella di Arezzo e delle sue vallate dei primi decenni del Novecento, la compravendita di bestiame era l’attività commerciale più importante e la figura del mediatore veniva esaltata proprio in queste trattative.

La compravendita, soprattutto dei bovini, avveniva quasi sempre con la presenza del sensale. Nel trambusto generale del mercato, dove i mediatori, anche collaborando insieme, si davano da fare per concludere più affari possibile, le contrattazioni erano vere e proprie sceneggiate, assistite da un capannello di persone, che duravano anche diverse ore. Molti contadini assistevano per farsi un’idea di quale fosse il valore del loro bestiame, la frequenza alle diverse fiere serviva anche a questo. Come racconta Luigi Dalla Ragione di Pieve S. Stefano, il sensale trascinava, non certo casualmente, il probabile acquirente a vedere l’animale. Il futuro compratore non guardava neppure la bestia e iniziava a disprezzarlo, poi con sufficienza lo ispezionava e quindi platealmente cercava di andarsene senza domandare nemmeno il prezzo. Allora il sensale lo fermava e “si faceva dire (in un orecchio)” dal padrone il prezzo di vendita, poi ritornava dall’acquirente che insisteva per lasciar perdere l’affare “e, sempre in un orecchio, gli diceva la cifra”, ma quest’ultimo con ampi gesti mostrava il proprio sdegno e di nuovo faceva finta di andar via. E’ a questo punto che interveniva uno dei presenti “che finora era stato zitto a sentire” e si faceva dire dal sensale il prezzo senza che alcuno degli astanti sentisse. Ora era lui che andava dal padrone dell’animale, lo portava in disparte “gli accostava la bocca all’orecchio e gli diceva qualcosa che, anche il padron delle vacche, cominciava a storcere come se gli fosse preso il mal di stomaco all’improvviso”. A questo punto i due mediatori si scatenavano: “Altre parole nell’orecchio, una volta a uno, una volta all’altro” e alla fine prendevano una mano al compratore e una al venditore, gliele facevano stringere insieme e tenendogliele ferme fra le loro “cominciavano a scrollare in sù e giù dicendo che ora bastava e andava bene come avevano detto”. Dopo due o tre scrollate lasciavano andare le mani e l’affare era fatto (cfr. L. Dalla Ragione, Contadini di una volta, Pieve S. Stefano 1988).

Al di là degli aspetti plateali, il mediatore conduceva a compimento un vero e proprio contratto di compravendita. Lui, girovagando per le fattorie e parlando con il proprietario, il fattore e i contadini, conosceva le stalle e la qualità delle bestie; analizzava la conformazione generale dell’animale, lo tastava, controllava la dentatura, individuava l’età, il peso, la potenza di tiro o la qualità della carne e alla fine decideva il prezzo; faceva incontrare l’allevatore con l’acquirente, proponendo non solo la compravendita, ma eventualmente anche lo scambio “in base ai bisogni del momento” perché “i contadini gestivano i loro affari in modo da ottenere sempre dalle bestie la migliore combinazione tra le tre possibili prestazioni: carne, latte o lavoro”(cfr. F. Gori, cit.).

La contrattazione avveniva tutta a vista e non a peso (quest'ultima cominciò ad affermarsi solo negli anni Settanta del Novecento). Tutto ciò senza niente di scritto, ma alla fine siglato da una fragorosa e robusta stretta di mano a tre. ‘Lascia’ era la parola usata dal mediatore e che significava non opporsi al rituale scuotimento per tre volte dall’alto verso il basso delle loro mani riunite tra quelle del sensale: significava che dovessero lasciar libero il braccio in modo che il sensale li potesse alzare e abbassare per tre volte in modo da sancire l’accordo. Con questo gesto il contratto verbale era ‘perfezionato’ e aveva piena valenza alle condizioni faticosamente raggiunte. Generalmente era in uso la fideiussione, prestata verbalmente con l’espressioni “pagherò io”, “garantisco io”, “resto io garante” e simili e anche il mediatore poteva concedere la garanzia di solvibilità del compratore (anche per questo il sensale viaggiava sempre con molto contante nel borsello). Appena sancito il contratto, l’acquirente marcava l’animale con un segno a colore o tagliando con le forbici alcuni peli. Solo a contrattazione effettivamente conclusa, cioè completato lo scambio di merce e di denaro, il mediatore percepiva un compenso.

Il ruolo del sensale era fondamentale sia come intermediario, considerando che si racconta che “spesso mercanti e compratori litigavano e facevano a cazzotti”, sia come testimone perché “talvolta succedeva che dopo tutto ciò il proprietario della bestia cancellava il segno blu con la coda dell’animale e non voleva saperne dell’accordo preso”. (cfr. Un anno di ricordi. I nonni raccontano…, a cura delle classi V B e V C della Scuola Primaria “E. De Amicis” di Sansepolcro, 2008).

Dopo l’Unità d’Italia fu tentato di inquadrare la figura professionale del mediatore e anche la Camera di Commercio ed Arti di Arezzo fin dall’8 giugno 1880 redasse un regolamento per l’esercizio della professione: troppo complesso e burocratizzato restò disatteso e il mestiere del sensale rimase fondato sugli usi e sulle consuetudini locali fino alla scomparsa di questo antico mestiere. La fiducia guadagnata dalle parti, prima ancora della competenza, era perciò l’elemento che determinava il successo del mediatore. “Ci voleva comunque una persona seria ed onesta”, afferma il sensale Mario Nappini, detto il “Morino di Tegoleto”, frazione vicino ad Arezzo. Lo spiega bene il casentinese Alvaro Bacci: “Mica tutti i mediatori erano gente onesta. Si mettevano  d’accordo con compratore o venditore e gli facevano comprare a meno o vendere a di più, ma in cambio volevano, per dire, il triplo della normale tariffa di mediazione. (…). E la gente ha fatto i soldi in questo modo. Però tanti sono stati anche «sputtanati». Perché quando uno prende il vizio di fare le camiciole alla fine trova qualcuno che chiacchiera (…). E in questo modo il sensale diventa un ‘bischero’” (cfr. F. Gori, cit.).

Il contenuto del presente articolo è una sintesi dell’intervento dell’autore tenuto il 4 marzo 2016 dal titolo Usi e consuetudini mercantili: il mestiere del sensale nel 7° ciclo de “I Venerdì di Palazzo del Pero” ed è stato pubblicato sul numero 37 di “Notizie di Storia”, rivista della Società Storica Aretina. Una sintesi più ampia verrà pubblicata sul prossimo e imminente numero di “Pagine Altotiberine”, rivista dell'Associazione Storica dell'Alta Valle del Tevere.

Redazione
© Riproduzione riservata
14/06/2019 17:51:47

Claudio Cherubini

Imprenditore e storico locale dell’economia del XIX e XX secolo - Fin dal 1978 collabora con vari periodici locali. Ha tenuto diverse conferenze su temi di storia locale e lezioni all’Università dell’Età Libera di Sansepolcro. Ha pubblicato due libri: nel 2003 “Terra d’imprenditori. Appunti di storia economica della Valtiberina toscana preindustriale” e nel 2016 “Una storia in disparte. Il lavoro delle donne e la prima industrializzazione a Sansepolcro e in Valtiberina toscana (1861-1940)”. Nel 2017 ha curato la mostra e il catalogo “190 anni di Buitoni. 1827-2017” e ha organizzato un ciclo di conferenza con i più autorevoli studiosi universitari della Buitoni di cui ha curato gli atti che sono usciti nel 2021 con il titolo “Il pastificio Buitoni. Sviluppo e declino di un’industria italiana (1827-2017)”. Ha pubblicato oltre cinquanta saggi storici in opere collettive come “Arezzo e la Toscana nel Regno d’Italia (1861-1946)” nel 2011, “La Nostra Storia. Lezioni sulla Storia di Sansepolcro. Età Moderna e Contemporanea” nel 2012, “Ritratti di donne aretine” nel 2015, “190 anni di Buitoni. 1827-2017” nel 2017, “Appunti per la storia della Valcerfone. Vol. II” nel 2017 e in riviste scientifiche come «Pagine Altotiberine», quadrimestrale dell'Associazione storica dell'Alta Valle del Tevere, su «Notizie di Storia», periodico della Società Storica Aretina, su «Annali aretini», rivista della Fraternita del Laici di Arezzo, su «Rassegna Storica Toscana», organo della Società toscana per la storia del Risorgimento, su «Proposte e Ricerche. Economia e società nella storia dell’Italia centrale», rivista delle Università Politecnica delle Marche (Ancona), Università degli Studi di Camerino, Università degli Studi “G. d’Annunzio” (Chieti-Pescara), Università degli Studi di Macerata, Università degli Studi di Perugia, Università degli Studi della Repubblica di San Marino.


Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono in nessun modo la testata per cui collabora.


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