Opinionisti Claudio Cherubini

75° anniversario della liberazione dal nazifascismo: 1945-2020

La questione occupazionale era strettamente legata al problema alimentare

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75 anni fa, il 25 aprile 1945 il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia, legittimato ormai dagli Alleati fin dal dicembre 1944, ordinò alla popolazione l’insurrezione generale e assunse i pieni poteri civili e militari per conto del governo di Roma. Il 28 aprile venne fucilato Mussolini, ma l’odio popolare non si placò e nei giorni seguenti furono uccisi altri 12000-15000 fascisti dai nomi illustri a quelli più sconosciuti, da noti torturatori a figure marginali del regime, dagli aguzzini delle Brigate nere della Repubblica di Salò a innocenti, come ovvio epilogo di “uno  scontro tanto violento come quello avvenuto tra il 1943 e 1945”, evidenziò lo storico Giorgio Vecchio.

Tra maggio e giugno la situazione politica si stabilizzò e anche gli aspetti amministrativi furono regolarizzati fino a condurre all’insediamento del nuovo governo guidato da Ferruccio Parri, il 21 giugno 1945, che avrebbe dovuto incarnare gli ideali della Resistenza in contrapposizione al “l’atmosfera politica romana, accomodante e volta al compromesso”, commentò lo storico Roberto Battaglia. La speranza di ricostruire un’Italia fondata sugli ideali della Resistenza s’interruppe con la formazione del quarto governo De Gasperi, il 31 maggio 1947, che segnò la fine della collaborazione tra cattolici e comunisti sulla quale molti avevano riposto speranze per rinnovare la società italiana.

Ormai erano anni che la popolazione lottava contro la fame e le miserie della guerra, reagendo come poteva alle diverse situazioni: alcuni si erano nascosti più o meno armati nelle montagne, tanti civili avevano cercato rifugio nelle campagne, molti avevano aiutato i partigiani, i rifugiati e gli sfollati, qualcun’altro si era arricchito con la borsa nera. Secondo lo storico Renzo De Felice, durante gli anni della guerra civile, la maggior parte della popolazione cercò di non schierarsi: “si trattò di una sorta di strategia di sopravvivenza, un’autodifesa e insieme un tentativo di fuga da una realtà che da qualunque angolatura la si vedesse non ispirava granché ad assumere decise prese di posizione. Un atteggiamento particolarmente diffuso nel mondo contadino che, dopo essersi umanamente prodigato a favore dei militari sbandati o dei prigionieri anglo-americani evasi, si chiuse in se stesso negli anni della guerra civile, evitando di prendere posizione attiva a favore di alcuno dei contendenti, si trattasse di fascisti, tedeschi, alleati o partigiani”. Ma il «Bando Graziani» (emanato il 18 febbraio 1944) che condannava alla pena di morte i disertori e i renitenti alla leva obbligatoria e le feroci rappresaglie contro i civili da parte delle retrovie tedesche, spinsero un numero sempre maggiore di persone ad appoggiare la causa dei partigiani. Come confermano i ricordi dei testimoni, pubblicati in diversi libri, e il documentatissimo volume dello studioso locale Alvaro Tacchini sugli anni 1943-1944 intitolato Guerra e Resistenza, anche nell’alta valle del Tevere sia umbra che toscana, a fianco della resistenza armata dei partigiani si sviluppò una resistenza civile diffusa fra la popolazione: “la stessa resistenza armata non sarebbe stata possibile senza una rete ampia di solidarietà popolare che ha assicurato rifornimenti e assistenza ai combattenti” chiarì lo storico Pietro Scoppola.

Finita la guerra anche in Valtiberina, come nella maggior parte della penisola, doveva essere garantita la sopravvivenza della popolazione. Come annotò il giornalista economico Renzo Stefanelli, a fronte di un fabbisogno di circa 3000 calorie al giorno per abitante, nel 1946 il valore calorico degli alimentari disponibili era sceso dalle 2650 calorie/giorno pro-capite del periodo 1936-40 a 1500 calorie al giorno per persona e nonostante quindi rappresentasse la metà del minimo vitale esso assorbiva l’80% del bilancio medio della famiglia operaia. Tutto questo in un contesto nazionale “che non era assolutamente in grado di produrre il minimo indispensabile, né, esigenza ugualmente indifferibile, di predisporre contemporaneamente la strumentazione e di mobilitare le risorse per rimettere in moto l’apparato produttivo: nel 1945, infatti, posto 100 il 1938, l’indice della produzione manifatturiera era precipitato a 29,1, e quello della produzione agricola a 67,3”  come scrisse lo storico Giorgio Mori.

Per aiutare la popolazione ad avere quanto necessario per sopravvivere dalla fine di aprile del 1945 era stato reso obbligatorio «l’ammasso» dei cereali:  grano, granturco, orzo, avena e segale, una volta raccolti e detratta la quota per le necessità familiari e produttive del podere dovevano essere consegnati ai cosiddetti «Granai del popolo». Era una procedura di emergenza che di fatto metteva i contadini in una posizione privilegiata creando tensioni sociali, tanto più quando erano sospettati di trattenere una quantità maggiore del dovuto. Del resto il razionamento di 2 Kg di pasta e di 6 Kg di pane al mese per persona e il livello dei prezzi degli alimentari che rimaneva alto, generavano una specie di «guerra tra poveri» come evidenziò anche lo storico aretino Agostino Coradeschi. Invece il capresano Giovannino Fiore ricorda che “Per il contadino, il coltivatore diretto, il piccolo proprietario delle zone montane, come Caprese, fu un periodo di vero e proprio riscatto sul piano del prestigio sociale”.

         La questione occupazionale era strettamente legata al problema alimentare, così come la battaglia condotta dai mezzadri per la revisione dei patti colonici. Quest’ultima, nel corso del 1945, generò manifestazioni e lotte a Sansepolcro e Anghiari, mentre un’importante protesta per la mancanza di lavoro ci fu a Pieve S. Stefano dove, il 16 luglio 1945, circa 60 braccianti disoccupati imposero la cessazione del lavoro a 70 operai edili e la chiusura di esercizi pubblici. Nei mesi successivi la tensione non si allentò e nel 1946 ci furono nuove manifestazioni: al grido di “pane e lavoro”, il 16 marzo, a Sansepolcro, 150 donne si radunarono presso il municipio per protestare  contro la mancata distribuzione di pasta, grassi, zucchero e vennero minacciati saccheggi; il 27 luglio, nella stessa città, protestarono 300 disoccupati; il 2 settembre ad Anghiari, reclamarono lavoro 100 braccianti; di nuovo a Sansepolcro, il 16 settembre, manifestarono 400 reduci e disoccupati. D’altra parte alla fine del 1946 la crisi alimentare appariva “nelle stesse proporzioni del periodo 1941-42” e un anno dopo il mercato nero era ancora fiorente, tanto che lo stesso pastificio Buitoni venne accusato “di essere un centro di smercio clandestino” come scrisse Antonio T. Lombardo nel suo studio sulla borsa nera aretina tra il 1939 e il 1947.

La ricostruzione della Buitoni era ricominciata nell’inverno 1944-45, ma la sua rinascita fu frenata prima dalle difficoltà di approvvigionamento, non venendo assegnati sfarinati per la produzione di pasta; il ripristino dell’attività produttiva restò frenato fino alla fine degli anni Quaranta. Nell’esercizio 1944 la Buitoni aveva realizzato una perdita di 710545,48 lire compensata soltanto per meno del 5% dagli utili indivisi degli anni precedenti. Tuttavia nel 1945 l’azienda ritornò in utile e nel 1946 colmò il passivo accumulato due anni prima. Ciò nonostante ancora nel 1947 la Buitoni non poté lavorare secondo le sue potenzialità principalmente per la mancata assegnazione delle materie prime e nello stesso anno furono sospesi anche i lavori di ricostruzione a seguito di provvedimenti di limitazione dei fidi bancari. Negli anni successivi perdurarono le difficoltà di ripresa del settore alimentare e anche la Buitoni procedette lentamente e con discontinuità nella sua opera di ricostruzione. Artefice della ricostruzione dello stabilimento di Sansepolcro fu Marco Buitoni, mentre i fratelli Bruno, Luigi e Giuseppe pensarono alla riattivazione rispettivamente della Perugina, della fabbrica di Roma e di quella di Parigi. Alla metà degli anni Cinquanta la Buitoni era tornata leader in quasi tutti i settori in cui operava.

Ma anche il rilancio dell’industria più importante dell’alta valle del Tevere non sarebbe stato possibile senza una congiuntura economica favorevole instaurata con “l’adesione dell’Europa occidentale al disegno politico e alla strategia economica del governo di Washington” come scrisse lo storico Valerio Castronovo: la politica monetaria degli Stati Uniti creò “una liquidità internazionale, di cui si aveva allora assolutamente necessità, per stimolare gli scambi e lo sviluppo economico” e questa era l’unica strada da perseguire, per tutti i paesi europei, vincitori e vinti, per evitare una grave recessione, sebbene ciò comportò un ulteriore rafforzamento della supremazia degli Stati Uniti.

In Valtiberina nel 1948 anche i coniugi Conti, Elio e Angela Carlotto, dettero vita al loro primo maglificio in via XX settembre, che trasferirono alcuni mesi dopo in via della Fraternita e nel 1955 in via Anconetana. Invece il 1949 fu l’anno in cui un giovane avvocato di Sansepolcro, Fabio Inghirami, figlio di Pio e Laura Menci, lasciò la sua promettente attività forense per trasformare i cinque negozi di stoffa e tessuti di proprietà della sua famiglia in un’azienda che, inizialmente con 22 operai, produceva  camicie da uomo.

         Saranno queste le tre aziende che caratterizzeranno l’economia della valle della seconda metà del XX secolo.

Claudio Cherubini
© Riproduzione riservata
20/04/2020 10:03:43

Claudio Cherubini

Imprenditore e storico locale dell’economia del XIX e XX secolo - Fin dal 1978 collabora con vari periodici locali. Ha tenuto diverse conferenze su temi di storia locale e lezioni all’Università dell’Età Libera di Sansepolcro. Ha pubblicato due libri: nel 2003 “Terra d’imprenditori. Appunti di storia economica della Valtiberina toscana preindustriale” e nel 2016 “Una storia in disparte. Il lavoro delle donne e la prima industrializzazione a Sansepolcro e in Valtiberina toscana (1861-1940)”. Nel 2017 ha curato la mostra e il catalogo “190 anni di Buitoni. 1827-2017” e ha organizzato un ciclo di conferenza con i più autorevoli studiosi universitari della Buitoni di cui ha curato gli atti che sono usciti nel 2021 con il titolo “Il pastificio Buitoni. Sviluppo e declino di un’industria italiana (1827-2017)”. Ha pubblicato oltre cinquanta saggi storici in opere collettive come “Arezzo e la Toscana nel Regno d’Italia (1861-1946)” nel 2011, “La Nostra Storia. Lezioni sulla Storia di Sansepolcro. Età Moderna e Contemporanea” nel 2012, “Ritratti di donne aretine” nel 2015, “190 anni di Buitoni. 1827-2017” nel 2017, “Appunti per la storia della Valcerfone. Vol. II” nel 2017 e in riviste scientifiche come «Pagine Altotiberine», quadrimestrale dell'Associazione storica dell'Alta Valle del Tevere, su «Notizie di Storia», periodico della Società Storica Aretina, su «Annali aretini», rivista della Fraternita del Laici di Arezzo, su «Rassegna Storica Toscana», organo della Società toscana per la storia del Risorgimento, su «Proposte e Ricerche. Economia e società nella storia dell’Italia centrale», rivista delle Università Politecnica delle Marche (Ancona), Università degli Studi di Camerino, Università degli Studi “G. d’Annunzio” (Chieti-Pescara), Università degli Studi di Macerata, Università degli Studi di Perugia, Università degli Studi della Repubblica di San Marino.


Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono in nessun modo la testata per cui collabora.


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