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Un ritorno a luogo di sanità per il vecchio ospedale di Citta’ di Castello?

Al momento regna il degrado

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Da 18-19 anni è un contenitore vuoto. E come spesso accade in casi del genere, finisce inevitabilmente in preda al degrado, al punto tale da diventare un motivo di vergogna, anche se si tratta di un antico palazzo del ‘700 dall’aspetto estetico gradevole. Stiamo parlando dell’ex ospedale di Città di Castello e il riferimento è ovviamente al vecchio edificio, che si trova in largo Monsignor Giovanni Muzi, davanti alla chiesa di San Domenico, nel rione Prato e al confine con quello della Mattonata. Il nuovo ospedale, moderno e funzionale, è ubicato sul versante di Belvedere, leggermente distaccato dal contesto urbano ed è entrato in funzione nel 2000, mandando in pensione il plesso che ha operato per tantissimo tempo nel centro storico. A dire il vero, i lavori di realizzazione del nuovo ospedale presero il via nel 1975, finanziati dall’ente ospedaliero di allora; il percorso non è stato pertanto agevole, se è vero che la conclusione è arrivata dopo 25 anni. La necessità di una struttura al passo con i tempi, dotata di una migliore organizzazione anche dal punto di vista logistico, di una maggiore funzionalità per le apparecchiature di avanguardia e anche di una comoda accessibilità oltre che di parcheggi (crediamo che oramai non vi siano più rimasti ospedali dentro i centri storici), ha messo fuori gioco lo storico immobile e d’altronde era anche naturale che andasse a finire così. Pensare di questi tempi a un ospedale “ingabbiato” fra strade più o meno strette e con veicoli che possono fungere da involontario intralcio alle ambulanze è quantomeno anacronistico; eppure, fino a pochi decenni fa era così, a Città di Castello come a Sansepolcro, ma anche in centri più grandi e popolati. Oggi, invece, le strutture ospedaliere debbono essere raggiungibili nel più breve tempo possibile e allora vengono fisicamente distaccate dai contesti urbani per essere insediate accanto a nodi stradali che permettano di guadagnare minuti e secondi preziosi, qualora vi siano situazioni di emergenza. Non vi è tuttavia alcuna logica che giustifichi lo stato di evidente abbandono in cui è stato lasciato l’ex ospedale tifernate, fra continue proposte e promesse di riconversione che non si sono mai concretizzate. Adesso, sembra che la volta buona sia arrivata. O meglio, nel luglio scorso il sindaco tifernate Luciano Bacchetta aveva parlato di “svolta importante”, perché dalla Regione dell’Umbria era arrivata la proposta di un accordo di programma per il vecchio ospedale. A distanza di quasi sei mesi, l’accordo è fatto concreto e il bello è che quello del centro storico tornerà ad essere un palazzo di riferimento per la sanità.      

DAL 2000, SOLO ABBANDONO E VANDALISMO, SPECIE NELL’AMATA CAPPELLINA

Il prolungato abbandono e immobilismo sono un qualcosa di assolutamente letale per edifici come quello dell’ex ospedale di Città di Castello. Prova ne è il recente crollo di un pezzo di tetto, che ha reso necessario un intervento di messa in sicurezza. D’altronde, la situazione non può fare altro che aggravarsi di anno in anno, se nessuno vi mette mano; forse, era talmente tanta la frenesia di operare in un ospedale moderno e funzionale che l’ultimo pensiero era quello rivolto al recupero della struttura. E così, dal 2000 a oggi, il palazzo è andato incontro a un progressivo quanto inevitabile degrado. E se anche nell’immediato potrebbe non essere balenata un’idea particolare per il suo recupero, è pur vero che il problema avrebbe dovuto quantomeno porsi. Invece, la cosa è stata lasciata cadere e allora l’ex ospedale è stato obiettivo preferito di scorribande, atti vandalici e luogo coperto per i cosiddetti “senza fissa dimora”. Se qualcuno lo avesse voluto, sarebbe riuscito a sottrarre pezzi preziosi rimasti al suo interno, oltre alle cartelle cliniche con i dati sensibili dei pazienti. Fra le parti compromesse, ve n’è una che tocca particolarmente il cuore dei tifernati: la cappellina, considerata un gioiello di fine ‘700, nella quale è stata battezzata una bella fetta di bambini che nascevano all’ospedale. Più generazioni di tifernati, insomma. E proprio nella cappellina si era soffermato l’ex consigliere regionale umbro Oliviero Dottorini, assieme allo scomparso direttore della rivista “L’Altrapagina”, Enzo Rossi, durante la visita compiuta nell’edificio dell’ex ospedale. Era il marzo del 2012. Stando a quanto evidenziato più di sei anni fa da Dottorini, “la chiesa – che in origine era pregevolmente decorata di stucchi, con l’altare e la balaustra di marmo finissimo e con assieme anche i dipinti dei patroni San Florido e Sant’Amanzio di Antonio Illuminati – è stata saccheggiata fino a renderla irriconoscibile. Gli stucchi erano stati asportati, la balaustra in parte divelta e il tabernacolo scardinato. Risultavano mancanti anche parti di mobilio e i dipinti”. Già prima era arrivato un grido d’allarme, ma dopo quella perlustrazione fu ancora più forte da parte di Dottorini, che invitava le istituzioni regionali e locali a dare risposte immediate per uno dei palazzi storici della città, meravigliandosi del fatto che l’amministrazione comunale non avesse incluso l’ex ospedale nel progetto del contratto di quartiere relativo all’area ex Fat. Anzi, più volte c’era stato il tentativo di vendere l’immobile, senza alcun successo: le aste indette dalla Regione dell’Umbria erano andate deserte.

DUE FIGURE CHIAVE: MONSIGNOR LUIGI GAZZOLI E L’ARCHITETTO FRANCESCO MARIA CIARAFFONI

Ma quale storia c’è dietro il palazzo che per lungo tempo ha ospitato il nosocomio tifernate? Le notizie cono raccolte nel volume “L’Ospedale di Città di Castello”, edito dall’Assessorato alla Sanità della Regione dell’Umbria. Sono diverse le trasformazioni apportate, nei vari secoli, alla struttura principale dell’edificio originario, situato all’angolo fra via Luca Signorelli e largo Monsignor Luigi Muzi: un nucleo articolato attorno a un chiostro. E’ un immobile che si sviluppa su tre piani complessivi, per una superficie di 7600 metri quadrati. Non emergono, anche dalle indagini di archivio, certezze particolari: semmai, l’analisi degli elementi costruttivi può fornire qualche input sull’origine medievale, come ad esempio le volte a crociera dei locali posti a piano terra a ridosso del chiostro, diverse da quelle realizzate nei lavori di ampliamento e ristrutturazione, che risalgono al ‘700. Nelle iconografie rinascimentali e barocche – siamo intorno alla metà del XVI secolo – l’edificio appare molto schematico e comunque caratterizzato dalla presenza di un chiostro; più precisa la cartografia del secolo successivo: quella di una struttura con tre livelli e con una loggia sulla destra del fronte principale che non compariva in precedenza. Il chiostro è chiuso e articolato su due ordini di arcate, mentre sul lato sinistro della facciata principale vi sono delle case che verranno demolite a fine ‘700 e sul retro è indicato un terreno modificato, che poi verrà parzialmente occupato in epoche più recenti. Confrontando le due cartografie, emerge una differenza sia nel numero di piani che nella conformazione della facciata, il che fa pensare a un primo intervento di ristrutturazione. Senza dubbio, il passaggio chiave avviene nella seconda metà del secolo XVIII, quando altri lavori vengono eseguiti sotto l’amministrazione di monsignor Luigi Gazzoli – allora governatore di Città di Castello – e la redazione del progetto affidata all’architetto marchigiano Francesco Maria Ciaraffoni. E qui occorre ricapitolare in sintesi i fatti che portarono a questa decisione. Una bolla di papa Leone X del 1° dicembre 1514 riunisce l’Ospedale di tutti i Santi e quelli di San Florido, Santa Maria della Strada e San Giacomo della Scatorbia; tutti assieme, prendono la denominazione di Ospedale di San Florido, dipendente dal Capitolo della Cattedrale, che nel 1773 viene unificato all’ospedale di Santa Maria della Misericordia per costituire quelli che sarebbero divenuti gli Ospedali Uniti di Santa Maria della Misericordia e di San Florido di Città di Castello. L’architetto Ciaraffoni, nativo di Fano, aveva vissuto quasi sempre ad Ancona: suo il progetto della chiesa del Santissimo Sacramento, ma anche quello del teatro Pergolesi di Jesi e anche dell’edificio che è sede attuale del Comune di Fano. A Città di Castello, l’architetto Ciaraffoni amplia l’esistente, dando all’edificio un aspetto più armonioso: nuova diventa la facciata, in parte rivestita con l’intonaco e in parte con i laterizi; l’ispirazione è alle opere di Juvarra, Vanvitelli e Piermarini, come dimostrano gli accostamenti alla Reggia di Caserta e al Palazzo Senatorio, sede del Comune di Roma, in piazza del Campidoglio, con torre campanaria e orologio. Ciaraffoni inserisce elementi inconfondibili del periodo neoclassico: il bugnato, ordine gigante sopra il basamento e la balaustra a coronamento del cornicione. Il corpo centrale del palazzo avrebbe dovuto emergere dal resto, con torre e balaustre laterali, anche se caratterizzato dall’assenza di un portone centrale, sostituito da due ingressi bugnati a identica distanza dal centro, individuato in corrispondenza della torre con l’orologio. Oltre che sulla facciata artistica, Ciaraffoni lavora anche sugli elementi interni di costruzione: volte laterizie, volte a crociera e volte a padiglione con lunette, ovvero il massimo della tecnica costruttiva impiegata nel XVIII secolo, rispettosa sia della funzionalità e della sicurezza, sia dell’arte. Le volte dei livelli superiori sono realizzate in camera a canne, a mo’ di controsoffittature sorrette da una centina in legno, ma anche la finitura dei paramenti laterizi e le decorazioni in pietra arenaria sul fronte principale e sulle linee architettoniche delle volte stanno a dimostrare la grande preparazione delle maestranze e la validità dell’architetto Ciaraffoni, che dimostra di possedere competenze anche in materia di prevenzione sismica, magari perché – provenendo dalle Marche – era abituato a lavorare in un territorio costretto a fare i conti con i terremoti. Peraltro, una forte scossa con epicentro a Monte Nerone si verifica il 13 giugno 1781, proprio a lavori in corso, ma quella del 30 settembre 1789 (a ospedale già completato da 4 anni) mette a dura prova un’intera vallata: è il terremoto più violento in assoluto della storia in Alta Valle del Tevere e i danni che causa all’edificio non sono ingenti. I danni comunque ci sono, pur non essendo stata intaccata la stabilità globale, il che non è poco; a questo, contribuisce la puntuale manutenzione garantita dall’amministrazione sanitaria, con l’approntamento delle catene metalliche (ancora oggi visibili nella facciata, in particolare sopra le logge) e l’effettuazione di altri piccoli interventi. Ulteriori catene sono state inserite dopo quel tremendo sisma del 1789. Gli interventi di consolidamento sulla struttura sono finalizzati al controllo di uno dei meccanismi di danno più probabili e allo stesso tempo pericolosi: il ribaltamento della facciata. Lo sfalsamento che Ciaraffoni ha creato tra il filo della facciata e la struttura dei basamenti ha dunque una doppia giustificazione: di ordine stilistico, ma anche in chiave di prevenzione sismica. I corpi emergenti – viene spiegato – assumono la funzione di speroni e agiscono contro il meccanismo di rotazione attorno alla base, favorito dalle azioni orizzontali. Nella parte destra della facciata principale dell’ospedale, dove si trova la Ruota degli Esposti, vi erano già le tre arcate del pianoterra e Ciaraffoni crea uniformità simmetrica realizzandone altre tre nella parte sinistra del palazzo. Per ciò che riguarda le coperture, sono state uniformate le quote di gronda e valorizzati gli elementi di pregio. L’architetto marchigiano, nel conservare in altezza i due piani del palazzo (più ovviamente il piano terra), ha inteso spezzare l’assoluta omogeneità di sviluppo con l’innalzamento di una torre campanaria, dotata di orologio, sopra il tetto dell’edificio e con ai lati due balaustre delle quali è conservato poco o nulla; si ritiene che ciò sia dovuto si segni lasciati dai forti terremoti. Nella zona centrale della facciata, sotto le finestre del primo piano, vi sono tre armi in pietra che raffigurano rispettivamente i patroni della città, i santi Florido e Amanzio; lo stemma del Comune di Città di Castello e quello di monsignor Luigi Gazzoli, il vescovo che tanto si è impegnato per portare a termine l’operazione, al punto tale da attirarsi addosso l’ostilità di otto parroci, che si rivolgono a papa Pio VI, il quale si schiera però dalla parte del prelato. La lapide murata al di sotto delle tre insegne ricorda le vicende che portarono al completamento dell’opera nel 1785, comprensivo della costruzione della chiesa, che viene decorata con stucchi, altare (assieme a un dipinto attribuito a Santi di Tito) e balaustre in marmo. Eccezionali le sue dimensioni: 116 metri di lunghezza, 46 di larghezza e – con i fabbricati annessi, la lavanderia e la camera mortuaria – arrivava a 6mila metri quadrati.

FINANZIAMENTI DA ROMA PER LE INGENTI SPESE SOSTENUTE

I lavori sono molto costosi e richiedono molti anni per il ripianamento dei debiti; mutui sostanziosi, quelli contratti dalle Opere Pie, anche se monsignor Gazzoli mette a frutto i suoi buoni rapporti con la Santa Sede per garantirsi finanziamenti e contributi da parte degli istituti di credito dello Stato Pontificio. Il giorno dell’inaugurazione dell’ospedale assume i connotati di quello del grande evento per la città: cerimonia solenne e persino la coniazione di uno scudo d’argento nel quale da una parte c’è l’effigie di papa Pio VI e sul retro è incisa in rame la facciata dell’ospedale. Come specificato poco sopra, l’operato di monsignor Gazzoli è stato oggetto di critiche da parte dei parroci, ma su di lui si scagliano anche i laici, dal momento che il vescovo governatore ha deciso di sopprimere le confraternite, anche se nella realtà monsignor Gazzoli ha lavorato per la società, cercando di andare a sostegno di poveri e indifesi. Una volta ottenuta l’approvazione di papa Clemente XIV nel novembre del 1772, il 22 giugno 1773 monsignor Gazzoli emana il decreto di unione con assieme statuto e regolamento. L’anno successivo, il governatore cittadino ottiene anche il concentramento nella nuova opera pia del patrimonio delle confraternite più ricche (quelle della Carità, della Frusta, di Santa Caterina e di San Sebastiano di Città di Castello, di Montalbano, di Mezzavia, di Botina, di Castelfranco, di Morra, di Carlano e del Crocifisso di Montone) e degli istituti elemosinieri che esistevano allora (Legato pio Balducci, Opera pia dei poveri detta delle Gabbanelle, Opera pia Ronchetti-Vitelli, eredità Smirli-Mori e Cappellania di San Paolo). Prima di salutare Città di Castello nel 1781 per trasferirsi ad Ancona, monsignor Gazzoli ottiene l’ok definitivo per la facciata dei nuovi Ospedali Riuniti e più volte, dalla città marchigiana, fa ritorno a Città di Castello per seguire di persona i lavori. E non è ancora estinto il mutuo quando il 30 settembre 1789 si verifica la forte scossa di terremoto, che aggrava ulteriormente la pesante situazione finanziaria; ebbene, monsignor Gazzoli riesce a “strappare” dal papa un mutuo a condizioni più che vantaggiose. Nel 1803, lo stesso Gazzoli – ora cardinale - torna a Città di Castello e nella chiesa dell’ospedale vengono innalzati altri due altari laterali.

LE TANTE MIGLIORIE APPORTATE NEL CORSO DEL TEMPO

Trascorre quasi una ottantina di anni, tempo tecnico sufficiente per suggerire di rimettere mano nella struttura per apportarvi delle migliorie, alle quali provvede nel 1862 la nuova amministrazione della Congregazione di Carità, anche se dal punto di vista finanziario e sanitario la situazione dell’ospedale lascia molto a desiderare: i locali sono tenuti in condizioni definite pessime, la biancheria a disposizione è poca e scarseggiano anche le attrezzature chirurgiche. Si arriva così alla fine del XIX secolo, quando una svolta deve comunque maturare: nel 1893, la giunta provinciale amministrativa sollecita l’adozione di provvedimenti e l’anno successivo l’ufficio tecnico del Comune di Città di Castello – con ingegnere capo Egidio Salvi – vara il progetto per la costruzione della sala operatoria, con assieme altri lavori. All’inizio del XX secolo, quindi si parla di poco più di 100 anni fa, la grande decisione sul futuro è presa: l’ospedale non si sposterà da dove si trova, per cui si procederà con una nuova ristrutturazione dell’immobile nel quale è ospitato dal 1785. E stavolta si lavorerà quasi in esclusiva nei locali interni, perché c’è bisogno di una riorganizzazione dal punto di vista logistico. L’incarico della ristrutturazione viene affidato all’ingegner Ginocchietti: siamo nel 1903 e nove anni più tardi, nel 1912, i lavori arrivano a conclusione. Quali sono le variazioni? Le corsie maschili a pianterreno sono state adattate in parte a cantina dell’azienda agraria delle Opere pie e in parte trasformate in cucina e refettorio; i vecchi cameroni sono stati sostituiti da corsie più piccole e ciò risolve il problema della promiscuità fra le patologie, che ora risultano fisicamente separate. Sempre a pianterreno, vi sono l’ambulatorio chirurgico, la cucina, i magazzini degli alimentari, il guardaroba, la direzione e la portineria. Al primo piano, si trovano invece la chirurgia e i reparti di isolamento, la sala operatoria, il laboratorio chimico, l’economato e le corsie maschili e femminili separate. Al piano superiore, sono dislocate le sezioni di medicina femminile e maschile, assieme al padiglione di isolamento per le malattie infettive, mentre nel piazzale esterno sono state sistemate camera mortuaria e sala per l’autopsia. Modifiche significative anche a livello strutturale, sia sui tetti, sia sui vecchi solai in legno a doppia orditura di travi e travicelli: per questi ultimi, sostituzione con orizzontamenti di acciaio e laterizio e con impiego di profilati metallici. Spesa complessiva per i lavori: 100mila lire. Al fine di favorire l’afflusso di pazienti residenti nei Comuni vicini – e quindi di aumentare il grado di attrazione della clinica – per essi viene ridotta la retta di pagamento. Altre tappe significative: nel 1913, l’installazione dell’impianto di riscaldamento, negli anni ’30 l’istituzione del reparto maternità e il rinnovo delle sale operatorie, nel 1943 la pavimentazione in marmo dell’ingresso, la sistemazione dei corridoi e la costruzione della nuova scalinata. Piccola parentesi nel periodo di guerra (è il 1944 quando l’ospedale è momentaneamente trasferito nei locali del seminario vescovile), ma subito dopo la fine del secondo conflitto arrivano la centrale termica, il nuovo impianto di riscaldamento, la nuova lavanderia e soprattutto il centro trasfusionale. Tuttavia, già negli anni ’50 del secolo scorso comincia a farsi strada l’idea del trasferimento dell’ospedale in una zona più accessibile della città e in una struttura logisticamente più idonea. I tempi sono poi dilatati: fra progetto del nuovo ospedale, inizio dei lavori e inaugurazione della nuova struttura è trascorso quasi mezzo secolo. L’ente ospedaliero Santa Maria della Misericordia e San Florido è stato costituito in virtù della legge 12 febbraio 1968, numero 132 e il decreto del medico provinciale di Perugia dell’8 febbraio 1969 lo classifica come ospedale generale di zona. Con la legge regionale 16 marzo 1976, numero 12, l’ente ospedaliero di Città di Castello e quello di Umbertide vengono riuniti e dalla fusione nasce l’ente ospedaliero Alta Valle del Tevere di Città di Castello. Per oltre 200 anni, l’ospedale è stato un punto di riferimento in assoluto per i tifernati, ma anche per i pazienti che – per esempio - venivano da Sansepolcro. Non solo: vi è stato un periodo - dalla fine degli anni ’60 alla metà abbondante degli anni ’70 – nel quale gran parte dei bambini biturgensi (tanto per citare un esempio) veniva alla luce proprio a Città di Castello, in attesa del ripristino del punto nascita a Sansepolcro. E’ ancora vivo, negli adulti di oggi, il ricordo dei cameroni nei quali erano ricoverati i pazienti: sale grandi con soffitti alti, tipiche di edifici vecchi ma pur sempre dignitose; ed è vivo anche il ricordo sia delle rampe di scale in marmo, i cui gradini si erano consumati fino al punto di avvallarsi al centro a causa del continuo saliscendi giornaliero di persone, sia del chiostro centrale che si incontrava al termine delle scale: le vetrate lo isolavano dai corridoi interni perimetrali ad esso, attraverso i quali si accedeva ai vari reparti. Ed è vivo anche il ricordo del bar a piano terra.

GENNAIO 2019: SI’ ALL’ACCORDO PER IL RECUPERO DELL’IMMOBILE

Le ultime positive notizie sono di fine 2018-inizio 2019: quasi come se si trattasse di un ideale passaggio di testimone a distanza di oltre 18 anni (effettivi saranno poi di più), per l’edificio dell’ex ospedale di Città di Castello si prospetta di nuovo un futuro di carattere “sanitario”. Quei locali torneranno presto a vivere e riacquisiranno dignità sotto tutti i profili, a cominciare da quello fisico-funzionale: laddove per oltre due secoli vi sono stati degenti, medici, infermieri e operatori, vi sarà la Città della Salute (omologa della Casa della Salute), nella quale personale sanitario e utenza torneranno a diretto contatto. Il modo migliore per recuperare un immobile che ha fatto la storia della città e che ora può aprire un altro capitolo, diventando sede di una struttura fondamentale. L’accordo di programma con la Regione dell’Umbria si è finalmente concretizzato e quindi vi sarà una riconversione in Città della Salute con i medici di base e in importante centro della Asl per ciò che riguarda i servizi territoriali. Era dal 2000 che tutti attendevano questa notizia.   

Notizia tratta dal periodico Eco del Tevere
© Riproduzione riservata
27/02/2019 08:46:43


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