L'aretino Di Stazio accusato di un furto da 4,2 milioni di euro ora é anche un evasore fiscale
Lo Stato vuole le tasse per la cifra incassata per via criminale
Quando si parla della vicenda del vigilante Antonio Di Stazio, protagonista di uno dei furti più rocamboleschi avvenuti nella provincia di Arezzo, ci viene in mente un antico detto: “becco e cornuto”. La vicenda accadde l’11 luglio del 2016, quando Di Stazio, dopo aver “raccolto” oro in alcune aziende con il furgone blindato della Securpol per cui lavorava, nei pressi di Badia al Pino, “scaricò” il collega, invertì la marcia e scappò a tutto gas, ripreso però dalle telecamere. Il furgone con all’interno 4,2 milioni di oro, venne ritrovato vuoto su una stradina di campagna. Il vigilante spari per alcuni giorni per poi consegnarsi ai carabinieri di Lucca, raccontando di aver trascorso le notti a dormire sulle panchine delle stazioni. Con molta probabilità il sogno di diventare milionario non si è mai avverato, perché il Di Stazio a sua volta sarebbe rimasto fregato dai suoi complici. L’uomo, per le stranezze della giustizia italiana, di carcere ne ha fatto veramente poco: condannato in primo grado a una pena di quattro anni e mezzo, si è visto ulteriormente graziare in appello nel marzo 2018, tre anni e mezzo col beneficio degli arresti domiciliari controllati dal braccialetto elettronico, che ha già scontato. Ora lo Stato lo accusa di evasione fiscale per un milione e 900 mila euro di tasse che non avrebbe pagato, dovute proprio al provento del furto consumato all’epoca insieme a complici di cui Di Stazio non ha mai fatto il nome, probabilmente per paura. Un paradosso italiano? No, lo prevede la legge, bisogna dichiarare all’ufficio imposte come reddito Irpef anche quanto si è incassato per via criminale. Finirà tutto in una bolla di sapone? Lo vedremo nei prossimi mesi.
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