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Morte di Guerrina Piscaglia: i familiari chiedono un milione di euro alla Chiesa

Per la morte della donna di Badia Tedalda é stato condannato il parroco Gratien Alabi

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Torna alla ribalta il caso della morte di Guerrina Piscaglia, il cui cadavere non é stato mai ritrovato ma che secondo la giustizia fu uccisa dal parroco di Cà Raffaello, una frazione di Badia Tedalda, il congolese Gratien Alabi, che sta scontando 25 anni di reclusione. Ora per questa morte sorelle e nipoti portano la Chiesa in tribunale ad Arezzo, chiedendo un risarcimento danni per l’omicidio della donna.

Sostengono che vi siano responsabilità della struttura ecclesiastica (Diocesi e quindi Vaticano) e dell’ordine religioso dei Premostratensi per le condotte tenute da padre Graziano nell’esercitare la missione pastorale in quel territorio del comune di Badia Tedalda dove era stato inviato e dove il primo maggio 2014 sarebbe avvenuto il delitto.

Mai ritrovato il corpo della cinquantenne, che era invaghita del sacerdote e qualche segnalazione era pure pervenuta in Curia. La donna, sparita sulla via della canonica, era sposata con Mirco Alessandrini e madre di un figlio disabile per i quali è in arrivo allo stesso tribunale civile di Arezzo una causa simile. Ormai lontanissimi i tempi del clamore mediatico del giallo, la tappa di domani non vedrà presenti a palazzo di giustizia i protagonisti del caso.

Si tratta infatti di una udienza “cartolare”, da remoto, attraverso i computer degli avvocati e del giudice. E sarà un nulla di fatto perché la notifica del procedimento a padre Graziano è andata a vuoto. I legali della famiglia Piscaglia gli hanno inviato la citazione a Rebibbia ma il prete, ora ex, non è più lì. Trasferito a Opera, carcere di Milano, su sua richiesta.

Ha rotto il rapporto di fiducia con gli avvocati Riziero Angeletti e Francesco Zacheo che lo avevano difeso fino in Cassazione, chiedendo che venisse assolto per mancanza di vere prove. Il giudice domani dovrà fissare una nuova data. La condanna di Alabi per omicidio e soppressione di cadavere giunse dopo un’indagine serrata dei carabinieri della Compagnia di Arezzo e coordinata dal pm Marco Dioni.

Dopo una fase di depistaggio orchestrata dal prete stesso, a inguaiarlo furono celle telefoniche e messaggi inviati col cellulare della vittima. Enigma tuttavia mai chiarito del tutto, con Alabi che custodisce la verità e i nomi di eventuali complici.

L’azione intentata dalle sorelle di Guerrina con le avvocatesse Chiara Rinaldi e Maria Federica Celatti muove dalla considerazione che l’abito talare (tolto ad Alabi dopo la sentenza definitiva) sarebbe strettamente connesso alla relazione tra i due e all’omicidio: uno status, quello religioso, che lo poneva nella condizione di approfittarsi della parrocchiana, vulnerabile, abusando del ruolo carismatico e della frequentazione della famiglia per motivi pastorali. La pericolosità della situazione, per i legali dei Piscaglia, era nota e si poteva intervenire per tempo. Il timore di uno scandalo avrebbe innescato il proposito omicidiario. In ballo ora un risarcimento da un milione.

Ma il Vaticano, con lo studio legale Scognamiglio, sulla base del diritto canonico e civile, ha risposto agli avvocati Nicola Detti e Francesca Faggiotto (legali degli Alessandrini) definendo infondata la pretesa di risarcimento per responsabilità oggettiva. Il vice parroco era autonomo e non è applicabile tra Diocesi e prete il rapporto tra committente e preposto. Nessun potere di “direzione e sorveglianza” su Alabi “pastore proprio” della comunità a lui affidata. 

Notizia tratta dal Corriere di Arezzo
© Riproduzione riservata
29/11/2022 07:16:00


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