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Vent’anni fa il tragico rientro a terra del Columbia

Cosa ha insegnato per il futuro delle imprese spaziali

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“Potrebbe essere la fine di un’era. Questa tragedia segnerà certamente la fine del programma degli Space Shuttle”. Non si sbagliava nella sua previsione, uno degli ingegneri della NASA impegnati a seguire da terra la missione STS 107 dello Shuttle Columbia. Una missione, quella della storica navetta spaziale che aveva inaugurato nel 1981 una lunga serie di imprese spaziali per la durata di trent’anni, che era durata 16 giorni e si era conclusa tragicamente. Columbia stava sorvolando il Texas a una velocità di circa 22 mila km orari, a circa 63 km di quota. Chi osservò il cielo texano, quel pomeriggio del 1 febbraio 2003, pensò all’attraversamento di un bolide, cioè di un grosso meteorite. Alcune scie bianche infuocate, fecero cadere a terra una pioggia di detriti. Il Columbia, 105 tonnellate di peso, con a bordo i suoi sette astronauti, non atterrerà come previsto nel giro di 15 minuti, sulla pista di Cape Canaveral. Era il secondo, tragico incidente del Programma Shuttle, dopo quello del gennaio 1986: altri sette astronauti, per un totale di 14, erano deceduti durante una missione. Due tragedie in 113 missioni (soprattutto) e costi per missione davvero … alle stelle: era troppo. A quel punto, era ormai deciso che il programma, che già non aveva mantenuto le promesse in termini di costi (sempre più cari) e flessibilità, era destinato a chiudersi.

Fine gennaio, periodo nero per l’astronautica americana
Non era la prima volta, appunto. Il Columbia era decollato il 16 gennaio 2003 alle 16,39 ora italiana. A bordo, il comandante Rick Husband guidava una squadra di altri cinque americani (William Mc Cool, David Brown, Michael Anderson, Laurel Clark, e l’astronauta di origine indiana Kalpana Chawla, oltre al primo israeliano nello spazio, Ilan Ramon). Proprio per la presenza dell’astronauta israeliano, l’area del Kennedy Space Center era ancora più presidiata, per timori d ritorsioni politiche. In fondo, era trascorso poco più di un anno dal tragico 11 settembre, e il timore attentati aleggiava assai più di prima. E ancora una volta furono le temperature gelide ad abbattersi sulle debolezze della complessa e per molti aspetti delicata struttura di quella che è stata comunque la più rivoluzionaria macchina spaziale mai realizzata.

Il 28 gennaio 1986 fu sempre il gelo la causa (oltre ad alcune negligenze tecniche), a far distorcere le grosse guarnizioni circolari in gomma speciale che tenevano uniti i segmenti dei due booster laterali, a quindi a far fuoriuscire le fiamme da uno dei booster già alla partenza, che andarono a collidere contro il serbatoio esterno a propellenti liquidi del Challenger. E il 16 gennaio 2003 sarà un pezzo di rivestimento isoante, quasi certamente staccatosi assieme ad un grosso blocco di ghiaccio (come mostrarono le immagini), a infrangersi contro la struttura della navetta spaziale.

Se poi aggiungiamo che la prima tragedia spaziale americana (delle tre) è datata 27 gennaio 1967, con l’incendio dell’Apollo 1 sulla rampa di lancio, è evidente che quello sia un periodo sfortunato per l’astronautica americana, ed è comprensibile che quando vi sia un lancio verso fine gennaio gli scongiuri si moltiplichino. Pur essendo stato, comunque, periodo di successi storici. Come (tra gli altri) il lancio del primo satellite della storia statunitense, l’Explorer 1 (31 gennaio 1958) e quello altrettanto trionfale dell’Apollo 14 con tre astronauti verso la Luna (31 gennaio 1971).

Le cause
Appena lanciato il Columbia, per l’STS 107, l’allora numero uno della NASA ci incontrò a Torino, presso il Lingotto, per una conferenza stampa. Era giunto nel capoluogo piemontese per assistere ai lavori di preparazione dei molti moduli e componenti costruite da Thales Alenia Space per la Stazione Spaziale Internazionale, in fase di assemblaggio, e per discutere di programmi e strategie future anche cin l’Agenzia Spaziale Italiana: “L’Italia sarà grande protagonista dei prossimi scenari spaziali” – disse Sean O’Keefe – “Avete grandi competenze, capacità e risorse umane. La nostra è una grande cooperazione”.

Ci omaggiò di uno stemma in stoffa della missione: bello, originale, a forma di Shuttle. Tra l’altro a bordo del Columbia, nella stiva, era collocato lo SpaceHab, un modulo realizzato in parte negli USA e in parte a Torino.

Il 1 febbraio, dopo la tragedia, fu subito insediata la commissione d’inchiesta, che in pratica confermerà ciò che già si temeva dopo aver osservato (come peraltro avveniva sempre) tutti i dettagli dal lancio ripresi con le svariate telecamere poste sulla rampa di lancio. Un frammento dell’isolante in gomma di cui era rivestito il serbatoio centrale esterno di idrogeno e ossigeno liquido si era staccato al decollo colpendo alla velocità già molto alta, il bordo d’attacco della semiala sinistra dello shuttle, creando un foro di diversi centimetri.

Durante il rientro negli strati atmosferici, quando con l’attrito si generano temperature di 1800 gradi, attraverso la crepa erano entrati i gas incandescenti generati nell’impatto con l’atmosfera. La temperatura ha continuato ad aumentare fino quando, circa 2 minuti prima della perdita del contatto, i sensori di temperatura dell'ala sinistra non davano più segnali. In quel momento lo Shuttle sorvolava l'Arizona. Subito dopo, sull'ala sinistra sono entrati in funzione per 1,5 secondi due propulsori, per contrastare la resistenza aerodinamica dell'atmosfera. Subito dopo, il Columbia con i suoi sette dell’equipaggio, si distruggerà.

La commissione metteva in evidenza come le raccomandazioni sulla sicurezza della gestione espresse dopo il primo disastro di Challenger non fossero state recepite. Oltretutto, sfortunatamente, si trattò di uno dei rari voli Shuttle (in quel periodo) che non prevedevano attracchi alla Stazione Spaziale. Se così fosse stato, forse, una volta notato l’impatto del rivestimento misto ad un blocco di ghiaccio alla partenza, si sarebbe presa la decisione di un piano alternativo di volo. Forse con l’invio di un altro Shuttle da soccorso, oppure con il rientro dei sette astronauti con due capsule russe Sojuz. Certo, poteva essere uno scenario diverso. Gli astronauti del Columbia, una volta in orbita, non furono mai informati sui forti dubbi relativi a quell’impatto.

Un programma concluso, e l’inizio delle imprese di oggi e del futuro
Si doveva ricominciare: era necessario apportare modifiche (come nel 1986) e questo farà ritardare i lanci di due anni e mezzo, fino a luglio 2005. L’imperativo era, una volta che gli shuttle avrebbero ripreso a volare: completare la costruzione della Stazione Spaziale Internazionale e poi chiudere il programma. Cosa che avverrà nel luglio 2011. Così, il presidente americano George Bush, organizzò con la NASA dei gruppi di lavoro per fare il punto sul futuro. Anche perché, già all’epoca, aleggiava una certa tensione con la Russia, intenzionata a cooperare con la Cina nell’ambito dei futuri programmi di esplorazione spaziale.

Nacque pertanto in quei giorni un futuro che è l’attualità. Sempre più “spazio allo spazio” alle compagnie private (Space X su tutte), e poi l’avvio di un programma per il ritorno alla Luna e poi puntare a Marte. Con l’orbita terrestre da affidare ai privati. Il 14 gennaio 2004 sarà lo stesso presidente a presentarle nella sede della NASA a Washington in un’atmosfera di grande soddisfazione per il successo conquistato nei giorni precedenti con lo sbarco su Marte dei due rover Spirit e Opportunity.

In pratica l’attuale Programma Artemis, del ritorno alla Luna, nasceva nel gennaio 2004, inizialmente sotto il nome “Constellation”. Lo scopo era (ed è tutt’oggi) di ricavare dal suolo lunare, oltre ad alcuni materiali, soprattutto l’ossigeno utile all’insediamento umano e per i propulsori dei razzi, oltre che potenziali risorse da trasferire sulla Terra: “La Luna – sottolineava Bush – è il primo passo da compiere per raccogliere l’esperienza e le conoscenze necessarie per il passo successivo dell’esplorazione, una missione umana verso Marte”.

Sfida e sogno di conquista del Pianeta Rosso poi ereditati da Obama, e concretizzati in seguito con i programmi attuali. Si confermava inoltre l’esplorazione robotica di Marte ma anche delle lune di Giove (la missione Juice partirà il prossimo aprile), per cercare tracce di vita e infine si sosteneva lo sviluppo delle tecnologie necessarie alle nuove sfide. La logica della vision univa l’esplorazione robotica e umana e la prima era in funzione della seconda, e il tutto con la fondamentale cooperazione internazionale, soprattutto di Europa, Canada e Giappone.

 

Notizia e foto tratte da La Stampa
© Riproduzione riservata
01/02/2023 06:07:01


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