Le bici dei grandi campioni fatte dai maestri telaisti nella collezione di Moreno Bianchini

71enne pensionato di Sansepolcro con la passione per le due ruote a pedale
Oltre 200 pezzi in totale, con la caratteristica di essere unici: ci sono anche i modelli utilizzati da Gastone Nencini, Freddy Maertens e Francesco Moser. Ogni esemplare è accompagnato da una propria scheda: il successo dell’appassionato di Sansepolcro nelle varie iniziative ed esposizioni
Affermare che colleziona le biciclette con le quali hanno gareggiato i grandi campioni del ciclismo sarebbe fin troppo semplice ed eclatante. Il grande merito di Moreno Bianchini, 71enne pensionato di Sansepolcro con la passione per le due ruote a pedale, è soprattutto quello di aver raccolto gli esemplari costruiti dai maestri telaisti italiani, in sella ai quali hanno poi corso le leggende del nostro ciclismo, ma anche stranieri. In casa di Bianchini, si respira aria di ciclismo d’altri tempi, nell’osservare le tante bici esposte che costituiscono un ingente patrimonio, perché si tratta soprattutto di pezzi unici e non realizzati in serie.
Bianchini, da quante biciclette è composta la sua singolare collezione?
“Da almeno 200, che abbracciano un arco temporale di 100 anni: si va infatti da un biciclo con rotone del 1889 fino a una bici da corsa del 1990. Vi sono anche biciclette da passeggio e una particolare, quella del bersagliere: poche eccezioni, comunque, in un contesto fatto di modelli da competizione e vintage”.
Quando ha iniziato e per quale motivo?
“Tutto è partito 13 anni fa, quando ritrovai un vecchia bici da passeggio di mio nonno, che – stando a quanto mi hanno raccontato – si sarebbe recato in treno a Firenze per acquistarla e poi tornare a casa pedalando. Nel ristrutturare questa bici con il freno a bacchetta, è scattata in me la molla e ho cominciato a entrare sempre più in questo mondo”.
Di recente, Lei si trovava a Gubbio con una delle bici che Gastone Nencini ha adoperato nel vittorioso Tour de France del 1960 ed era assieme a Giovanni, figlio del campione toscano. Di quali altri “big” possiede le bici?
“Di due campioni del mondo: Freddy Maertens e Francesco Moser, ma anche di Vito Favero, di Ely Mencherini di Caprese Michelangelo e di Riccardo Chiarini, ciclista di più recente generazione che ha disputato un giro d’Italia, per cui è una bici anche tecnologicamente più avanzata”.
Ciò premesso, si entra nel merito dell’argomento e di ciò che rappresenta l’essenza della collezione di Moreno Bianchini. Un passaggio fondamentale, che spiega il reale valore di ciò che il biturgense è riuscito a mettere insieme.
“Ai tempi del ciclismo “eroico” – dice Bianchini – le industrie di biciclette erano poche; su tutte spiccavano la Bianchi e la Legnano (alle quali erano abbinati i nomi di Fausto Coppi e di Gino Bartali), che producevano bici commerciali in serie, per cui non si sentì la necessità di allestire un reparto corse, specializzato nella costruzione dei modelli per campioni o ciclisti importanti, vedi appunto, Coppi, Bartali e anche Felice Gimondi. Nel reparto corse lavoravano giovani ma bravissimi telaisti saldatori; i nomi più significativi sono Beppino Drali, Luigi Gilardi e Luigi Valvassina, perennemente al lavoro per i campioni. Dall’altra parte, c’erano moltissime società professionistiche: Molteni, Faema, Salvarani, Carpano e Magniflex, poi Scic, Fam Cucine e Del Tongo. Siccome nessuna di esse produceva bici da corsa, vi era la necessità di trovare artigiani, maestri telaisti in grado di soddisfare qualitativamente e numericamente le esigenze delle tante squadre. I più importanti maestri del telaio dagli anni ’30-’40 fino agli anni ’70-’80 sono stati Pino Pelà, Fallero Masi, Ugo De Rosa, Ernesto Colnago, Beppino Drali, Luigi Gilardi, Angelo Picchio, Lino Beltramo, Corrado Paratella, i fratelli Patelli, Gios, Gianni Rivola, Umberto Marnati, Cino Cinelli, Francesco Galmozzi e Irio Tommasini di Grosseto, del quale sono grande amico: è lui che mi ha poi rivelato molti segreti. Diversi di questi artigiani sono poi diventati imprenditori di livello mondiale. Tutti questi signori appena menzionati hanno confezionato su misura e curato i minimi particolari delle biciclette da corsa dei più grandi campioni di sempre, italiani e stranieri”.
Insomma, il segreto di tutto sta nel telaio?
“Ovvio. Il telaio in acciaio di una bici vintage è come un quadro: si riconoscono la mano del maestro e dell’artista dai particolari, dalla lavorazione e dal cuore che vi è stato messo. La caratteristica del telaio reca implicitamente la firma dell’autore, non ci si può sbagliare”.
E Lei possiede i telai di questi maestri?
“Sì, con la relativa scheda. I computer ancora non c’erano e allora vi era una sorta di registro per ogni bici, riportante misure, peso e altri particolari che ci permettono di risalire all’anno di costruzione e al campione. Io stesso, quando espongo, descrivo la bici attraverso la scheda. Le misure di tubo orizzontale, tubo verticale, angolazione e congiunzioni sono i numeri distintivi di ogni modello; il telaista li adattava alla costituzione fisica e ai requisiti tecnici del ciclista per metterlo nelle condizioni di ottenere il miglior risultato. L’intesa fra telaista e ciclista era fondamentale, più che con qualsiasi altra figura. Ciascun telaista aveva poi le proprie congiunzioni, saldate a regola d’arte, che in qualche caso dava ad altri. Per far capire come si è risalita alla bici di Maertens, firmata Benotto, ho letto due numeri: 80/41 nel sottoscatola, ovvero anno 1980 e 41esimo telaio; il numero 9 inciso sotto la sella mi ha confermato l’appartenenza al campione belga. Altro esempio: la bici di Moser, creata da De Rosa, ha un sottoscatola diverso”.
Quante soddisfazioni le hanno dato i suoi pezzi unici firmati dai maestri telaisti?
“Tante: ho esposto a Firenze, Bologna, Castiglion Fiorentino e una volta anche a Sansepolcro. Il riconoscimento più bello, nel 2021, è stato quello di “Perla dell’Eroica”, in occasione della più nota fra le ciclostoriche che si tiene a Gaiole in Chianti. Ho portato la Beltramo del 1941 senza congiunzioni ed è stato un gran successo, ma i consensi mi sono arrivati anche per gli esemplari che portato alla “Lastrense” di Lastra a Signa”.
Dovesse quantificare il valore delle sue bici, a quale totale si arriverebbe?
“Non mi soffermerei sul valore economico della mia collezione, anche perché questo è soggettivo, quanto piuttosto sul valore emozionale che tale collezione può suscitare su addetti ai lavori e non; l’emozione di poter vedere e toccare con mano biciclette che hanno scritto la storia di questo sport e – perché no? – risollevato sportivamente ed economicamente le sorti di una nazione che (non dobbiamo dimenticarlo!) era uscita molto provata da ben due eventi bellici e che stava affrontando una ricostruzione e una ripresa non facili”.
Ha un obiettivo particolare da realizzare?
“Continuare sia le esposizioni di bici che ho già in collezione, sia cercare nuovi cimeli che ancora mi mancano. Guardo in particolare una vecchia foto di archivio con tre illustri maestri: Pelà, Paratella e Picchio. Vorrei allestire una esposizione con tre biciclette di questi grandissimi telaisti… e la ricerca e il sogno continuano, coadiuvato e supportato anche da mia moglie Nadia, che condivide con me questa passione e che molto spesso mi accompagna a questi eventi. È diventata una pedina insostituibile nelle mie esposizioni”.
Commenta per primo.