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Intervista esclusiva a Daniele Bennati, il CT della Nazionale Italiana di ciclismo

Un viaggio nel mondo delle due ruote tra il "Pantera" e il nostro direttore

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Quel ‘pallino’ fin da piccolo che diventa poi la professione di una vita. La bicicletta nel sangue, la passione per l’Inter nel cuore. Daniele Bennati non ha certamente bisogno di troppe presentazioni: aretino, 43 anni il prossimo 24 settembre, è un ex ciclista su strada italiano che ha corso tra i professionisti dal 2002 al 2019. Soprannominato “Pantera”, ha mosso i suoi primi passi nel mondo del ciclismo da dilettante alla Grassi Mapei, per approdare poi nel professionismo a 22 anni. Ha indossato maglie di squadre di prima fascia come Lampre, Liquigas e Movistar - solo per citarne alcune - togliendosi lo sfizio di primeggiare a Parigi nell'ultima tappa del Tour de France 2007 (dopo aver vinto anche la 17esima), sotto l'Arco di Trionfo. Nel suo palmarès ci sono 54 vittorie, tra cui anche tre tappe al Giro d'Italia (più una maglia ciclamino nel 2008 per la classifica a punti), il Giro della Toscana, il Giro del Piemonte e sei tappe della Vuelta in Spagna. Ha fatto il suo esordio in maglia azzurra ad un mondiale strada élite nel 2005 a Madrid. Ha poi partecipato ai Mondiali di Copenaghen nel 2011, a Ponferrada nel 2014 poi a Richmond l’anno successivo; a Doha nel 2016 e a Bergen nel 2017, ricoprendo in diverse occasioni il ruolo di capitano in corsa. Dopo aver cessato l’attività nel 2019, nelle ultime due stagioni ha svolto il ruolo di opinionista televisivo per la Rai, oltre ad aver conseguito il titolo di direttore sportivo di terzo livello. Nel novembre del 2021 è salito sull’ammiraglia come commissario tecnico della nazionale italiana, ruolo che ancora oggi ricopre. Alla mia telefonata in punta di piedi, nonostante i suoi tanti impegni, ha subito risposto presente. È stato disponibile fin dall’inizio a raccontarci il “Bennati ciclista” ma anche a dialogare su un tema alquanto delicato come quello della sicurezza dei ciclisti. Un viaggio nel mondo delle due ruote con la voglia di scoprire nuovi talenti da portare, un giorno, ad indossare la maglia azzurra.

·        Come e quando Daniele Bennati si avvicina al mondo del ciclismo?

“Nel 1990 ho iniziato a correre su strada, avevo scoperto la Bmx praticata poi per un paio di anni: una specialità che mi ha insegnato tanto dal punto di vista della guidabilità della bici. Forse proprio per questo motivo sono poi stato abbastanza scaltro nelle volate quando sono diventato professionista. Venivo da una famiglia dove c’era già la passione per il ciclismo e fu proprio mio nonno Gino a regalarmi la prima bici da strada”.

·        Ci sono stati dei momenti in cui ha pensato che questo non era il suo sport?

“In realtà ho sempre creduto fin da piccolo che questo potesse essere il mio sport. Ho sempre avuto tanta passione per il ciclismo, seppure confesso che il mio debutto sportivo sia stato nel calcio: nei primi anni, mentre correvo in bici, giocavo anche a pallone, ma la bici mi dava quel qualcosa in più. Vedi, quando hai 10 anni non ti rendi sicuramente conto cosa potrebbe essere il ciclismo a livello professionistico. Lo guardavo in tv e mi sarebbe piaciuto essere lì: ciclisti che sono considerati come dei supereroi”.

·        Si ricorda la prima vittoria e l’emozione che ha provato?

“Assolutamente sì ed è un ricordo che non dimenticherò mai, perché la prima vittoria è coincisa anche con la prima gara che ho fatto. Era una sorta di sfida personale, mi prendevano in giro dicendomi che non sarebbe mai arrivata alla prima esperienza in una gara ufficiale. Ed invece è arrivata, proprio qui ad Arezzo in occasione del campionato provinciale”.

·        C’è poi stato il passaggio nel mondo del professionismo, seguito da una lunga carriera: il ricordo più bello, che non sia una vittoria?

“Sicuramente nella seconda parte della mia carriera, quando ho avuto il piacere e l’onore di affiancare tantissimi campioni. Uno su tutti, Alberto Contador: sono stato 4 anni con lui ed ho dei bellissimi ricordi, in particolare la vittoria arrivata alla Vuelta di Spagna nel 2014; eravamo una squadra davvero forte e dal punto di vista personale ero nel momento più bello dal punto di vista fisico. Vincere con Contador la Vuelta, oppure la Tirreno-Adriatico, vuole dire tanto anche dal punto di vista personale”.

·        Ed invece, ora le chiedo la vittoria più bella?

“Salire sul gradino più alto del podio negli Champs Elysées è qualcosa di incredibile. Per un corridore delle mie caratteristiche vincere l’ultima tappa del Tour de France, equivale ad aggiudicarsi una grande classica. Sono quei momenti che non ti puoi affatto dimenticare”.

·        Quali erano le caratteristiche di Daniele Bennati ciclista?

“Sono sempre stato considerato uno sprinter, un velocista, seppure io mi ritenessi un ciclista completo. Ho vinto la maggior parte delle corse in volata, ma riuscivo a difendermi bene anche in altri percorsi. Soprattutto negli ultimi anni della carriera ho avuto una trasformazione ed una preparazione particolare, sia per quello che riguarda le volate dove ti ritrovi solo a prendere 200 metri di aria, ma anche a lavorare per gli altri, dove devi affrontare anche 200 o 250 chilometri, pure in salita, a guidare il gruppo. Nonostante questo, tutti si ricordano il Bennati velocista”. 

·        Giro d’Italia e Tour di France: anche se le corse a tappe sono tante altre, quali sono le principali differenze tra queste due?

“Sono gare che si somigliano molto dal punto di vista tecnico, si differenziano dal punto di vista del dispendio di energie nell’arco delle tre settimane: occorre sicuramente avere grandi doti di recupero, sia per vincere che per prendere punti per la classifica. Il Giro d’Italia è sicuramente una delle corse più importanti per gli atleti azzurri, seppure il Tour abbia un’attenzione mediatica maggiore. Il Tour, quindi, è una corsa difficile da vincere e da interpretare; non che il Giro sia da meno”.   

·        Scarpette, o meglio bici al chiodo: c’è stato un rimpianto nella sua lunga carriera da professionista?

“In qualità di atleta non ho nessun rimpianto, anche se ovviamente qualche risultato in più poteva arrivare… ma anche di meno. Quindi sono molto soddisfatto. L’unico rimpianto è quello di aver terminato la carriera da professionista con una brutta caduta, nonostante avessi a 39 anni e quindi di non avere più il numero sulla schiena. Mi sarebbe piaciuta una grande festa, a dire il vero, l’avevo già organizzata a Castiglion Fiorentino con amici e compagni: è però subentrata la pandemia ed è svanito un po’ tutto”. 

·        E poi la chiamata a guidare la nazionale italiana di ciclismo: quando e come è arrivato questo (immagino) bellissimo incarico?

“Dopo aver terminato la carriera da atleta, per un paio di anni ho fatto il commentatore di Rai Sport per due Giri d’Italia e due Tour de France. Il ruolo da tecnico è stato da sempre una mia grande ispirazione, seppure confesso che non pensavo arrivasse così presto. Sta di fatto che si sono incastrate alcune situazioni tali che ho ricevuto la chiamata dal presidente della Fci (Federazione Ciclistica Italiana), Cordiano Dagnoni. Alla Nazionale si fa sempre fatica a dire di no, anche se sono incarichi che talvolta possono sembrare ‘scomodi’, ma pur sempre gratificanti”.

·        Da poco si è concluso il mondiale: vogliamo tracciare un bilancio?

“E tra poco c’è già l’europeo nei Paesi Bassi. A parte il risultato, il bilancio è positivo, soprattutto per la condotta di gara dei ragazzi. Bisogna essere realisti sulle cose e sappiamo che a livello internazionale, ad oggi, siamo inferiori rispetto ad altre nazionali. Ci sono corridori che lo dimostrano tutti gli anni di essere avanti, poi è ovvio che il mondiale è una corsa di un giorno e la storia ci insegna che è vero che vi sono tanti campioni, ma le vittorie sono arrivate anche da coloro che non partivano favoriti. Sono molto soddisfatto, poiché i ragazzi hanno fatto una gara al dì sopra delle potenzialità, seppure per il futuro vi sia tanto da lavorare e da sperare di poter lavorare su giovani promettenti”.

·        Prevenzione e sicurezza nel mondo del ciclismo, non solo inteso come sport ma anche nell’uso quotidiano di questo mezzo: quanto ancora c’è da lavorare?

“Tantissimo! Mi viene da dire che c’è proprio da iniziare a lavorare. Il nostro Paese non è fatto per andare in bici, ma questo non solo per coloro che usano le strade come palestre. Non è incentivato e le strade sono solamente per chi va in macchina. C’è tanto da fare in questa direzione: dobbiamo partire da zero ed è chiaro che, se le istituzioni non ci danno una mano, ogni sforzo risulta poi vano. Lo dico contro il mio interesse ma il ciclismo su strada - se continuiamo così - andrà a scomparire, perché ci saranno sempre meno giovani che si avvicineranno a questo sport e famiglie sempre più preoccupate. È una conseguenza naturale, purtroppo. L’Italia è il primo Paese europeo ad avere incidenti stradali e morti sulle strade: un motivo ci sarà e non è assolutamente colpa dei ciclisti”.

·        Quale il suo impegno in questo fronte e quale consiglio dare ai tanti cicloamatori?

“Siamo tutti d’accordo sul fatto che il ciclista sia sempre la parte debole rispetto all’automobilista; i cicloamatori, come i professionisti, in allenamento devono rispettare il codice della strada e non invadere le sedi stradali con gruppi di 20-25 persone. Questo è chiaro e non va affatto bene. Bisogna, però, dare il giusto segnale e non considerare il ciclista come un intralcio. Personalmente, quando esco in bici vado quasi sempre solo o al massimo con 2-3 amici: ma la cosa non cambia, occorre rispettare quello che è il codice della stradale e prestare la massima attenzione. Sempre!”.

·        Come è cambiato il ciclismo negli anni?

“Tecnicamente, vi posso assicurare che cambia di anno in anno e si nota subito la differenza. Il ciclismo è in continua evoluzione, ma le basi per fare il ciclista ed andare forte sono sempre le stesse. Sono cambiati l’alimentazione, i tipi di materiali che vengono utilizzati in cui c’è una ricerca smisurata per l’aerodinamica e per rendere il ciclista sempre più veloce. Per questo è uno sport che nel tempo è fatto anche più pericoloso”.

·        Ma secondo Lei in Italia la bicicletta la consideriamo davvero come un mezzo di trasporto, oppure solo un qualcosa per fare sport?

“Mi riallaccio un po’ alla domanda precedente, quella sulla sicurezza stradale. Purtroppo si pensa che la bici sia un qualcosa per fare sport, mentre gli altri Paesi europei la considerano anche un mezzo di trasporto e i ragazzini stessi per andare a scuola la utilizzano. Un po’ come da noi 30 anni fa. Ho un ricordo personale, perché riuscivo ad andare a scuola in bici in completa sicurezza e non c’erano ancora le piste ciclopedonali. Oggi, invece, si tende a portare i propri figli davanti al portone della scuola. Insomma, scusate se lo dico, ma è proprio una questione di cultura”.

·        Il consiglio che vuole dare ai giovani che vogliono avvicinarsi al ciclismo?

“E’ sempre complicato dare dei consigli, soprattutto in questo momento e non è sempre per ricollegarsi all’aspetto della sicurezza. Consigliare di fare ciclismo su strada per me è una grande responsabilità perché si rischia molto, nonostante spesso venga invitato nelle scuole o nelle società per parlare proprio di questo aspetto. I dati purtroppo lo dimostrano ed andare sulle nostre strade per un ragazzino è molto pericoloso. Il consiglio che mi sento di dare è quello di iniziare innanzitutto a pedalare in strade secondarie, accompagnati dai genitori o dagli allenatori. Adesso, poi, ci sono delle bici chiamate “gravel” che ti permettono di affrontare senza problemi anche strade bianche e di campagna, quindi lontane dal traffico. Questo per un ragazzino può essere un approccio importante: conoscere la bicicletta e la viabilità, cosicché quando sarà più grande potrà gestire il traffico della strada in maniera decisamente migliore”.

·        Nella nostra provincia, ad oggi, ci sono giovani promettenti che possono fare carriera?

“Purtroppo pochi. In provincia di Arezzo c’è Francesco Della Lunga che quest’anno ha vinto la prima gara della stagione, la Firenze-Empoli, che da sempre ha lanciato al professionismo diversi corridori. Speriamo che arrivi anche il suo momento: corre per il Team Colpack, una squadra importante. Siamo però diventati un po’ poveri di talenti, questo a livello nazionale e non solamente nel bacino aretino”.

·        Il Giro d’Italia, un evento che attrae in strada il popolo e non solo gli appassionati delle due ruote: qual è il segreto della corsa rosa?

“È vero, il Giro d’Italia porta in strada anche chi non è appassionato di ciclismo. Tutti si riversano ai bordi, che sia un passaggio o un arrivo di tappa: è uno degli avvenimenti più importanti del nostro Paese. Negli ultimi anni, però, si fa sempre più fatica a seguire anche il Giro, perché ci sono tante cose da fare: l’offerta è sempre maggiore, anche in tv. Il segreto è sicuramente quello di toccare tutta Italia, da nord a sud, regalando emozioni uniche anche ad un corridore”.

·        Ma quindi, secondo lei, ciclista si nasce oppure si diventa?

“Secondo me si può anche diventare, ma è chiaro che il talento lo deve dare madre natura. La genetica ci sta dimostrando che un giovane dotato di ottime caratteristiche può pensare di poter diventare ciclista, ma intraprendere anche altri sport. Ovviamente, ci deve sempre essere la passione. Ciclista, quindi, si può diventare con la dedizione ed il lavoro costante, seppure madre natura debba offrire doti importanti”.

·        Ciclista per professione, ma interista per passione. Siamo ad inizio stagione, ma un pronostico o la speranza calcistica?

“Siamo l’Inter e quindi abituati a soffrire e non vogliamo fare proclami troppo affrettati. È stata un’estate con tante cessioni, seppure piano piano Marotta stia aggiustando il tiro. Gli acquisti fatti si sono dimostrati azzeccati già in queste prime giornate. Sotto la regia di Simone Inzaghi, la squadra si sta dimostrando solida, il modulo più o meno è rimasto lo stesso e gli avversari lo sanno. Sanno anche quali sono le qualità in campo di questa Inter. Sarà una lotta, ma sono convinto che alla fine saremo lì senza nessun problema”.

·        Lo vuole lasciare un saluto ai lettori della nostra rivista?

“Lo faccio molto volentieri. Un caro saluto al vostro periodico l'Eco del Tevere e al vostro quotidiano online Saturno Notizie è stata una bella opportunità e spero che ce ne possano essere anche altre nel futuro. Ho saputo che i lettori del periodco sono tantissimi e di tre vallate differenti, mentre Saturno oramai é una testata conosciutissima a livello di centro Italia, con un direttore giovane ma che ha fatto crescere questa agenzia di comunicazione. Ciao, a presto!”.

Davide Gambacci

Redazione
© Riproduzione riservata
02/10/2023 12:32:40


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