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Seconda meta’ degli anni ’70: la riorganizzazione della sanita’ in Valtiberina Toscana

Chiusura degli ospedali di Anghiari e Pieve Santo Stefano

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Da ospedale generale di zona a Ospedale della Valtiberina. Sono queste le denominazioni assunte con il tempo dal nuovo plesso sanitario che ha sede a Sansepolcro. L’aggettivo “nuovo” si riferisce ovviamente all’attuale struttura, entrata in esercizio nel novembre del 1976. Da qui ripartiamo, in quella che possiamo considerare la virtuale seconda puntata sull’argomento sanità e ospedale a Sansepolcro: la prima risale al numero di marzo del nostro periodico ed era incentrata sulla storia dei vecchi Spedali Riuniti di via della Misericordia. Era dalla seconda metà degli anni Sessanta che l’idea di innalzare un edificio più moderno e funzionale, nel quale collocare l’ospedale, aveva già preso corpo e gambe. Le mutate esigenze di un mondo che stava cambiando, le dimensioni dell’antico palazzo che si rivelavano sempre più strette e anche la collocazione geografica in una strada del centro storico, costretta a fare i conti con le esigenze del traffico cittadino, avevano reso sempre più necessaria una diversa soluzione logistica. La questione non era poi soltanto di limitatezza degli spazi: si trattava di un ambiente oramai vetusto e tutti i cittadini biturgensi e del vicinato sopportarono gli ultimi anni di attività e i conseguenti handicap, chiudendo un occhio, proprio perché davanti c’era la prospettiva del nuovo complesso che si stava realizzando in leggera collina, in mezzo non ai caseggiati ma al verde. Ben presto, insomma, Sansepolcro avrebbe potuto contare su un ospedale vero, costruito scientificamente per questo scopo e ciò avrebbe migliorato non soltanto l’ospitalità e la gradevolezza, ma anche la qualità delle prestazioni sanitarie. Il parto non fu tuttavia semplice; anzi, si rivelò abbastanza travagliato. Dal 1965-66, anni dei primi sbancamenti di terreni, l’opera sarebbe stata completata due lustri dopo, se per completamento si intende la data della sua inaugurazione. L’idea del nuovo ospedale di vallata aveva una spiegazione logica in termini economici: oltre a risolvere i già descritti problemi della struttura di Sansepolcro, avrebbe accorpato in una unica entità anche i plessi di Anghiari (chiuso più tardi, negli anni ’80) e di Pieve Santo Stefano, che erano catalogati come “infermerie”, contribuendo intanto a ridurre i costi e a concentrare le risorse in una sede fisica potenziata a livello di servizi, proprio perché sarebbe stata la sola presente in tutto il comprensorio, come del resto è anche oggi. È chiaro che ad Anghiari e a Pieve storsero la bocca. La collocazione geografica individuata per Sansepolcro era subito piaciuta: sotto la collina di San Casciano, in direzione di Villa Silvestri e della località conosciuta come Fossatone. Si badi bene: oggi c’è una normale viabilità di collegamento sia dal versante del Villaggio Buitoni che dalla vecchia statale 3 bis, all’incrocio per la Montagna e Montecasale; allora, a metà degli anni ’60, a destra di via dei Molini c’era soltanto l’inizio di via Francesco Redi (originario indirizzo del nuovo ospedale), mentre la variante alla vecchia strada della Madonna della Legna – ovvero l’odierna strada per la Montagna che arriva fino al Fossatone - sarebbe stata costruita all’inizio degli anni ’70. Il complesso ospedaliero biturgense è stato edificato su più lotti di terreno: tre per la precisione. Ne era previsto anche un quarto, che però mai è stato realizzato: vi si sarebbe dovuto allestire l’auditorium e collocare l’oramai famosa vetrata artistica (oggi pezzo principe dell’esposizione nella ex chiesa di San Giovanni Battista) che la famiglia Fatti aveva donato al Comune di Sansepolcro, proprio con la garanzia che sarebbe stata collocata nel nuovo ospedale. Al proposito, esiste un documento in calce, sottoscritto in Comune dall’allora sindaco Ivano Del Furia e dagli eredi Fatti, alla presenza del segretario generale Gino Matteucci. I progettisti del nuovo ospedale sono stati l’architetto Giovanni Cecconi e l’ingegnere comunale Giustino Romolini, entrambi biturgensi e anche l’impresa edile che vi ha messo mano era locale: la Fratelli Mattesini. I lavori iniziarono nel giugno del 1967 e una parte dei lotti era già a posto nei primi anni ’70 (già dal 1972), ovvero il padiglione che guarda verso la vallata; rimaneva soltanto quello che consentiva la funzionalità e accorpava l’impiantistica, ovvero riscaldamento, ascensore, depurazione, sala operatoria e sala radiologica. Nel biennio 1973-74, anche il lotto “nevralgico” era andato in appalto e nel giro di breve tempo l’ospedale sarebbe dovuto entrare in attività, ma – come qualcuno fra i più attempati ricorderà – subentrò un ultimo inghippo, legato (così pare) alle dimensioni delle porte per il passaggio di lettini e carrelli. Una questione rimasta sempre nel limbo, fra chi sosteneva che in effetti qualche calcolo fosse risultato errato e chi invece lasciò intuire che forse si era trattato di una mezza leggenda metropolitana, anche perché il presunto errore avrebbe complicato non di poco la situazione.

SABATO 20 NOVEMBRE 1976, IL GIORNO DELL’INAUGURAZIONE

La realtà oggettiva delle cose induce comunque a pensare che anche l’eventuale problema sopraggiunto possa essere stato risolto in breve tempo, se è vero che nel novembre del 1976 il nuovo ospedale generale di zona entra ufficialmente in attività con 147 posti letto (l’inaugurazione ufficiale, sabato 20, è presenziata dall’avvocato Ameglio Fanfani, in qualità di presidente del cda dell’ospedale e dal sindaco Ivano Del Furia), pur con qualche iniziale e inevitabile collegamento con il vecchio, tipico di quando avviene un importante passaggio di consegne. È intanto un palazzo moderno, che esprime il top dell’edilizia del momento: un qualcosa che inorgoglisce i biturgensi, perché ora un ospedale nuovo ce l’hanno anche loro; per questa città, che costituiva allora la “locomotiva” economico-produttiva della vallata, era stato un salto in avanti notevole a livello di qualità della vita e se fino ad allora i cameroni erano ricavati all’interno di vecchie sale, con un numero di malati anche ingente, stavolta tutto era stato razionalmente predisposto. Medicina e chirurgia avevano le sezioni uomini e donne rigorosamente separate, poi c’era il reparto di ostetricia e ginecologia – grazie al quale i bimbi tornavano a nascere al Borgo – e per la prima volta compariva sulla scena la pediatria, grazie alla figura storica che la sanità della Valtiberina ha avuto in questa branca della medicina: la dottoressa Anna Maria Bartolomei, morta nel gennaio del 2016. Ovviamente, nel nuovo ospedale erano stati trasferiti anche pronto soccorso e laboratori analisi: c’erano gli ambulatori specialisti ma non ancora le particolari sezioni quali ad esempio sono l’ortopedia e l’oculistica di oggi. Il professor Piero Forconi era ancora il responsabile della chirurgia, anche se vicino al pensionamento; a breve, sarebbe stato sostituto dal dottor Stangoni e dall’aiuto primario, il dottor Francesco Berra, mentre la conduzione della medicina era già nelle mani del professor Alessandro Panerai.

ANNI ’80: L’ALA DI COMPLETAMENTO DEL PLESSO

L’ala retrostante per chi arriva e parallelo a quello originario (nel quale si trovano gli uffici, ma anche l’oncologia e la dialisi) è stata costruita negli anni ’80 da un’altra impresa edile biturgense, quella che aveva per titolare Luigi Bennati. L'edificio dell’ospedale, per entrare nello specifico delle sue caratteristiche, era stato sviluppato secondo la concezione tipica del tempo di progettazione e cioè con camerate da sei letti, in sostituzione del precedente modello a corsia, più alcune camere a uno o due letti. Il complesso si presenta come una grande "stecca" con tetto a terrazza rivolta verso la valle, dalla quale si stacca un corpo perpendicolare che si sviluppa sulla propaggine collinare, al quale è stata agganciata la parte realizzata negli anni ’80, che ha modificato la pianta del plesso, trasformandolo in una sorta di “H” senza una gamba. Dopo circa venti anni dall'inaugurazione, le camerate a sei letti sono state ristrutturate e la capienza ridotta a quattro. A cominciare dal 2010 circa, i reparti del pronto soccorso, della nefrologia e della chirurgia sono stati completamente riorganizzati nella spazialità interna, con un standard più confortevole basato su camere a due letti e servizi interni. In posizione pedecollinare, il complesso architettonico si sviluppa su quattro livelli, sfruttando la pendenza del terreno ed è circondato da parcheggi e aree verdi. La facciata principale, che si apre verso Viale Galileo Galilei (indirizzo ufficiale dell’ospedale), è in pietra e cemento ed è scandita dall'alternarsi delle finestre e dei balconi e dalla presenza della rampa di accesso meccanizzato al pronto soccorso. L'ingresso, preceduto da un piccolo loggiato, si trova sul fianco sinistro. Il blocco operatorio si trova al terzo livello ed è dotato di tre sale operatorie, di cui una ortopedica. Una linea architettonica che richiama più in piccolo quella del Policlinico Agostino Gemelli di Roma, inaugurato nel 1964. All'interno dell'ospedale, in un'apposita ala a destra dell’ingresso principale, ha sede l'ospedale di comunità, i cui posti letto sono stati aumentati a 12 nel 2006. L'ospedale di comunità accoglie malati che richiedono cure maggiori di quelle garantite a domicilio; la struttura offre assistenza infermieristica continua, mentre la gestione medica è delegata al medico di medicina generale. Dall’altra parte, invece, ci sono Cup e ambulatori dell’attività “Intra Moenia”. A fine anni ‘90, la generosità della gente della Valtiberina aveva fatto sì che la Fondazione Alessandro Panerai arrivasse ad acquistare la Tac, come straordinario macchinario a supporto della radiologia, mentre in fatto di oculistica e ortopedia l’ospedale era già arrivato a costituire un luogo di eccellenza, anche se ora non c’è più Rio, il robot ortopedico ad alta tecnologia per la chirurgia protesica. Dal settembre 2017, vengono effettuati interventi di alta specializzazione al ginocchio con professionisti inviati dalla struttura di Careggi a Firenze. Per ciò che riguarda manutenzione, adeguamento e potenziamento della struttura e dei servizi, si segnala il pacchetto da quasi cinque milioni di euro, finanziato dalla Regione e relativo a pronto soccorso, rete elettrica,  day surgery, sala gessi, endoscopia e chirurgia e ortopedia e il nuovo reparto di emodialisi. Un’operazione che si è conclusa nel 2013.

GLI ANTICHI OSPEDALI DI ANGHIARI

Una storia secolare, quella che lega il paese di Anghiari con l’ex ospedale, edificio imponente che domina in vetta alla Ruga di San Martino che, a distanza di anni, ha comunque sempre mantenuto una funzione sanitaria, dal momento che oggi ospita la Casa della Salute. Per Anghiari, quindi, l’istituzione ospedaliera è una chiara realtà, raggiunta fin dal lontano Medioevo e ha profonde radici sociali nelle necessità e nei bisogni della sua popolazione. Una storia contorta: locali provvisori per la violenta epidemia di tifo che aveva interessato paese, ma sostanzialmente nulla di concreto fino al 1868; in quell’anno il cavalier Orazio Nenci, primo cittadino anghiarese, desideroso di dare soluzione concreta al problema dell’ospedale, consultò le due associazioni assistenziali presenti in quel momento in paese: da una parte la Fraternita di Santa Maria del Borghetto e dall’altra la Confraternita di Misericordia. Vennero così costituite delle commissioni che, unite con una rappresentanza del Comune, studiarono i mezzi più adatti e opportuni per raggiungere tale scopo. Stipularono quindi un accordo, nel quale municipio e Confraternita di Misericordia avrebbero dovuto rispettare determinati punti anche sotto l’aspetto più squisitamente economico. Sta di fatto che l’edificio venne identificato nella già presente sede del Comune, situata nell’antica piazzola proprio davanti a Palazzo Pretorio. La compagnia iniziò con un pubblico appello ai cittadini, informandoli dell’iniziativa e richiedendo loro sostegno e collaborazione. Il governatore David Arrighi si rivolse al paese di Anghiari, spiegando che il tutto avrebbe dovuto essere realizzato per il bene duraturo dei cittadini. Furono quindi costituite delle commissioni incaricate di raccogliere fondi, tanto da organizzare questue, tombole e sottoscrizioni. Il 1° luglio 1870, sotto il titolo di “Ospedale della Misericordia” e a riconoscimento dell’associazione che più di tutte ne curò la realizzazione, vennero ospitati i primi malati. A seguito dell’apertura della nuova struttura, la Confraternita presentò alla commissione ospedaliera un progetto di statuto, preventivamente approvato dal Magistrato. L’esercizio ospedaliero del primo anno fu di 77 ricoverati, 63 dei quali uscirono guariti, mentre purtroppo 14 furono i deceduti. La media di permanenza del ricovero era superiore alle 17 giornate, con la presenza giornaliera di 3,7 degenti. Riguardo al servizio sanitario, i medici effettuarono diverse operazioni, tra cui l’amputazione di tre arti. L’ospedale rimase in quella sede per ben 39 anni, prima del trasferimento nel riadattato ex convento dei Minori Osservanti di San Francesco. Il convento della Croce, in pratica. Il 24 novembre del 1968, con una pubblica cerimonia organizzata dal Comune, congiuntamente con la Misericordia e la Fraternita di Santa Maria del Borghetto, venne solennizzato il primo centenario dell’istituzione dell’ospedale. Da allora, però, le cose iniziarono a mutare: estromessa la Misericordia dall’amministrazione del sodalizio con deliberazione regionale del 20 novembre 1974, cominciò per l’ospedale  una lenta agonia che nel 1984 portò alla soppressione dell’ente. A nulla valsero le vibranti proteste dei cittadini anghiaresi, pronipoti di Orazio Nenci e David Arrighi che, esattamente 116 anni prima, fecero appello allo spirito patriottico dei cittadini, affinché l’unico partito e interesse fosse quello di fare un’opera duratura.

UN SECOLO DI STORIA PER L’OSPEDALE DI PIEVE SANTO STEFANO

insieme a quello di Anghiari, l’ospedale di Pieve Santo Stefano era uno dei più importanti presenti in Valtiberina Toscana, dopo chiaramente il plesso di Sansepolcro, che era comunque il più grande e con il maggior numero di reparti presenti; tutto ciò anche dal punto di vista del numero di abitanti. E’ rimasto in attività per quasi un secolo, finché il nosocomio pievano ha chiuso definitivamente i battenti nell’autunno del 1977. Chiaramente non sono mancate le polemiche, con tanto di riunioni convocate nei precedenti mesi estivi dall’allora sindaco di Pieve Santo Stefano, Pietro Minelli, nei locali che ospitano tuttora il teatro comunale. Il nosocomio biturgense, già da qualche mese, aveva iniziato la sua attività, seppure non vi fossero ancora tutti i reparti disponibili. Ma veniamo alla storia di quello che sarebbe divenuto l’ospedale Madonna dei Lumi. Il governo italiano, attraverso la legge 3036, soppresse tutte le corporazioni religiose, confiscando nello stesso momento i suoi beni, il 7 luglio del 1866. L’immobile che ha ospitato l’ospedale di Pieve Santo Stefano era un ex convento dei frati e l’operazione di trasformazione avvenne nel 1874. A livello strutturale, è rimasto pressoché invariato: si presentava come un quadrato con al centro un giardino; due i livelli presenti, un piano terra e l’altro leggermente rialzato, che si poteva raggiungere impegnando due scale poi convergenti fra di esse; oggi, ne è rimasta solamente una. Due i corridoi presenti: da una parte il reparto delle donne, mentre dall’altra quello degli uomini - nella cui estremità era presente pure un “camerone” adoperato come ripostiglio per il materiale di utilizzo - e una sala parto che, forse per casualità ma anche per necessità, era ubicata nel lato opposto alla sezione femminile. L’ospedale di Pieve Santo Stefano aveva anche una sala operatoria e pure una stanza dedicata alla radiologia. Piccolo, ma allo stesso tempo funzionale e che costituiva un centro di attrazione sia per le persone del territorio (in particolare per quelle di Badia Tedalda e Sestino) che per quelle di fuori. Inizialmente, nel nosocomio pievano erano presenti le suore che prestavano servizio ai malati, poi si sono aggiunti anche alcuni infermieri d’eccellenza: sono ancora noti a Pieve Santo Stefano i nomi di Urbano e Cillo oppure della Diamante. Ospedale che, durante i suoi anni di permanenza e attività proprio all’ingresso del paese e confinante con la chiesa della Madonna dei Lumi, ha subito pure alcuni interventi di ristrutturazione; erano inoltre presenti anche alcuni ambulatori in una delle due “stecche” dove i medici di famiglia visitavano le persone in degenza. Una storia tutto sommato ancora abbastanza recente per una struttura che, ancora oggi, conserva un aspetto prettamente sanitario, ospitando sia la Casa della Salute che un centro per anziani. I pievani ricordano camerette abbastanza curate e pure i nomi di alcuni dei medici che si sono alternati nella storia secolare dell’ospedale: il dottor Stangoni, il dottor Bacinelli e anche il dottor Spini, che poi venne trasferito a Sansepolcro. Siamo subito arrivati al punto cruciale, quello dell’unificazione, che tanti “maldipancia” ha destato e che in parte non sono stati ancora digeriti: si abbassano le saracinesche degli ospedali di Anghiari e di Pieve Santo Stefano e il “potere” sanitario, dalla fine degli anni ’70, converge tutto su Sansepolcro, che nella struttura di via Galileo Galilei trova il suo punto di riferimento per tutta la Valtiberina. 

IL FUTURO DELL’OSPEDALE DELLA VALTIBERINA?

Interventi di ammodernamento si rendono adesso necessari per la medicina, quella rimasta più indietro rispetto alle altre; vi sono specialisti che arrivano settimanalmente ma, al di là di tutto, sono le prospettive future dell’Ospedale della Valtiberina – perché così oggi si chiama – a tenere sul dubbio la sua utenza, che paga anche il fatto di essere espressione di una popolazione appena superiore ai 30mila abitanti e quindi di avere un bacino inferiore a quello di altre vallate, con la vicina Città di Castello che avrà pure perso la titolarità della Asl ma che a livello di ospedale ha comunque una impostazione superiore. Il tendenziale accentramento delle funzioni verso Arezzo sembra aver relegato il ruolo del plesso di Sansepolcro a quello di sostanziale “ambulatorio di lusso”, nel quale si eseguono prestazioni sanitarie - anche specialistiche e di livello – togliendo però a esso le prerogative di luogo di ospedalizzazione. In 40 anni, i tempi saranno pure cambiati – come si va ripetendo - e non lo neghiamo, se non altro perché in nome di un risparmio che non dovrebbe riguardare la salute si procede con la logica dei tagli, però non erano certo questi gli auspici della comunità quando nel 1976 il nuovo ospedale entrò in funzione.    

Eco del Tevere
© Riproduzione riservata
07/05/2018 11:46:37


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