Non di solo pane vive il citto
Le contraddizioni del mondo dei grandi viste con gli occhi di un bambino
Il famoso detto di Dante rivisitato e una storia di una cura di montagna. Le contraddizioni del mondo dei grandi viste con gli occhi di un bambino, che a tavola faceva altre storie.
Non di solo pane vive il citto
Ero ancora ‘n carruzzina, quand’ho capito che i grandi non ci sono tutti, nel senso che gli manca qualche rotella. Dietro la tendina facevon certi versi, che parevano Sprichin Doitch e ridevon come scemi, mentre dicevano: “Billino ‘l mi’ cittino, arsumiglia tutto a la su’ mamma!” Siccome ero ‘n maschio non li mandavo a quel paese solo perch’ancora non avevo ‘n cominciato a parlare, ma ho capito subito che l’omo più cresce, più rincoglionisce. Da più grandino pesavo venti chili co’ la coradella e, siccome a que’ tempi, un c’era l’Unicef, faceva le su’ veci la mi’ mamma. Il primo Giorgio l’aveva perso ‘n guerra e non voleva perdere ‘l secondo che, poradonna, aveva voluto con tutte le su’ forze. Tutt’i giorni che Dio metteva in terra, a tavola, tra me e l’Angiolina, da cui avevo ‘reditato anche la testa dura, ne’la vecchia casa di Poldo al Tucciarello, si rievocavano le giostre del Toppo. S’era appena usciti dalla guerra, la fame non si tagliava più a fette, ma le mame, se i citti unn’eron tondi com’i palloncini che legavano a’la curruzzina ‘l giorno de’la Madonna del Conforto e rossi come la mela di Pippo, li portavano dal dottore. Io ero secco com’un chiodo, un po’ perché m’avevano fatto così, ‘n po’ perché ero parecchio schizzignoso, un po’ perch’avevo l’argento vivo a’dosso e l’Angiolina avrebbe venduto anche la casa per regalarmi ‘n paio di chili. Così le studiava di tutte e io mi nutrivo di quell’amore, che ‘n grassa l’anima ma non il corpo. Quando tirava ‘l vento, mi chiudeva ‘n casa perch’aveva paura che mi portasse via. Però l’aria mossa, da’ la terrazza del primo piano, mi faceva aterrare nell’orto di casa, volteggiando com’una piuma. Era anche parecchio divertente. Una volta, però, l’Angiolina mi vide e addio divertimento! Era di Casabarboni, quattro case nel Comune di Sestino propio sott’il Sasso di Simone, ch’era propietà dei nonni, sul confine tra Toscana e la Marca, ma pareva nata nel triangolo Santa Firmina, Le Poggiola e Chiani ‘n do’ non possono star fermi co’ le mani. Allora, per consolarmi ‘l mi’ babbo, che distava da quel triangolo quant’Arezzo da Ficulle, mi pigliava ‘n collo e mi raccontava una storia, come si fa ai citti per addormentalli. Tra queste ce n’era una che m’è rimasta ‘mpressa come una tavola del Gutemberg:
“C’era ‘na volta una curia di montagna - ataccava ‘l mi babbo - ‘n do’ i preti non volevano andare perché, da quant’era povera, morivano di fame. Il vescovo, preoccupato per l’anime dei parrocchiani, li convocò per risolvere ‘l problema e chiese a tutti: “Con ch’è buona la polenta?” Quelli si guardarono tra loro, pensando che avesse perduto la trebisonda e il primo ripose: “Col sugo di lepre, monsignore. Hai proprio ragione, concordò il vescovo. Per me è buona con i funghi, soprattutto con l’ordinale, dal profumo intenso e delicato – asserì il secondo. Non c’è dubbio, convenne monsignore. Intervenne un terzo: per me con la salsiccia. Io la preferisco con gli osei” - asserì un altro, che veniva dalla Serenissima. Per un’ora il vescovo continuò a’nterrogare i curati che, a’ que’ tempi, erano tondi quanto ‘na palla di cavolo. Tutti dettero prova d’essere dei palati fini, ma inadatti a quella povera cura di montagna. Il vescovo stava per andarsene oramai rassegnato, quando s’accorse che ‘n fondo a la canonica, ‘n un angolino, era rimasto un fraticello che si faceva fatica a vedere, tant’era trasparente per la magrezza del corpo. “E tu?” - gli chiese il vescovo, non vuoi dirmi con cosa è buona la polenta?” Il fraticello ripsose: “Per me, Eminenza, è buona con la fame”. Ecco, disse allora il vescovo, tu sei proprio quello che cercavo e gli assegnò la cura di montagna, ch’ebbe finalmente un pastore d’anime a misura delle necessità. Mentre mio padre raccontava, io aprivo la bocca da’la meraviglia e l’Angiolina n’approfittava a tradimento, per ingozzarmi come l’ucillini. Praticamente ‘l mi’ babbo faceva come quello che reggeva ‘l moccolo. Però mangiavo volentieri, perché quei bocconi avevano il sapore delle coccole e, dopo, potevo uscire senza sassi in tasca, anche se tirava un po’ di vento.
Giorgio Ciofini
Giorgio Ciofini è un giornalista laureato in lettere e filosofia, ha collaborato con Teletruria, la Nazione e il Corriere di Arezzo, è stato direttore della Biblioteca e del Museo dell'Accademia Etrusca di Cortona e della Biblioteca Città di Arezzo. E' stato direttore responsabile di varie riviste con carattere culturale, politico e sportivo. Ha pubblicato il Can da l'Agli, il Can di Betto e il Can de’ Svizzeri, in collaborazione con Vittorio Beoni, la Nostra Giostra e il Palio dell'Assunto.
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