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La burocrazia, grande nemica dello sviluppo

Lacci e lacciuoli e funzionari che “ingessano” l’attività della “macchina” pubblica

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Tempi lenti, strutture pesanti, lacci e lacciuoli e funzionari che “ingessano” l’attività della “macchina” pubblica hanno portato l’Italia agli ultimi posti nelle classifiche di efficienza 

 Quando una ventina di anni fa l’allora ministro della funzione pubblica, Franco Bassanini, decise di intervenire in maniera determinata per migliorare l’efficienza della cosiddetta “macchina amministrativa” più in generale, cercando soprattutto di velocizzare le procedure a livello di burocrazia e tempistiche, i primi a salutare con piacere la novità furono gli imprenditori, abituati a ricevere e a dare risposte con una certa celerità. Se dunque il privato marciava in quarta e il pubblico procedeva in seconda, con le leggi Bassanini sarebbe stata quantomeno innestata la terza. A Bassanini si debbono poi il decentramento amministrativo, l’introduzione della firma digitale e della carta d’identità elettronica, l’autocertificazione e, proprio per rendere più snelle le procedure, la maggiore responsabilità conferita ai funzionari e ai dipendenti pubblici. Chiaro era dunque lo spirito del ministro nella stesura della legge, ma l’interpretazione ha finito con il creare l’effetto diametralmente opposto. Il classico risvolto all’italiana anche in questo caso? Di certo, si è tornati a parlare con forza delle problematiche relative alla pubblica amministrazione, che è molto ben visibile nello stallo delle opere pubbliche di ogni genere. La rete legislativa che è stata costruita ha avuto un magico effetto: quello di accrescere la discrezionalità dei dirigenti, consentendo loro di scegliere la norma che preferiscono, o di non sceglierla affatto e aspettare. Una fuga dalla responsabilità: chi avrebbe il potere di agire, evita di farlo. Ne deriva perciò una burocrazia addestrata all’adempimento e non all’azione, la cui principale preoccupazione è appunto quella di adempiere ai mille atti e procedure previste, ingessando così la macchina pubblica. La burocrazia in Italia è fatta dalle leggi, non dagli uomini ed è un pachiderma, perché si porta sulla groppa un castello di norme. La maggior acquisizione di potere da parte dei dirigenti e dei funzionari, chiamati comunque a mettere in atto l’indirizzo politico dato da chi amministra la cosa pubblica, si è tradotta in una sorta di stimolazione all’immobilismo, spesso dettata dalla paura di assumersi determinate responsabilità. Se pertanto c’è da affrontare una questione ritenuta delicata, si va alla ricerca di pareri e consultazioni e si allungano i tempi per poi giustificare il “non si può fare”, o al massimo il “si può fare, ma… “. Ogni appiglio è quello buono per aggrapparsi all’inerzia e intanto imprenditori o altre persone non ricevono la risposta che debbono avere, vedono pericolosamente allungarsi i tempi e alla fine sono costretti a desistere anche dal proposito più buono, perché non vi è stato il necessario sostegno della parte istituzionale e vi rimettono in denaro e in salute. E il dirigente o funzionario è pure intoccabile: percepisce un lauto stipendio con tutti gli emolumenti e gli incentivi che gli spettano. E poi, guai a richiamarlo al dovere o a minacciare provvedimenti: se qualcuno ci prova, ricorre a tutte le armi di tutela in suo possesso. Intanto, però, la pubblica amministrazione italiana si colloca al 23esimo posto su 28 nella classifica dell’efficienza. Come dire che siamo in zona retrocessione o quasi. L’Italia è invece piena zona retrocessione nella graduatoria per burocrazia: 18esima su 19. In base a una stima degli industriali, i ritardi costano 31 miliardi di euro (quasi il 2% del Pil) e solo sul fronte giudiziario occorrono in media 1210 giorni (oltre 3 anni) per giungere al terzo grado nelle cause civili. Come si può notare, la burocrazia è il primo ostacolo alla crescita economica e sociale del nostro Paese, non dimenticando che l’esercito della pubblica amministrazione è composto da tre milioni di dipendenti e che la commissione europea ci ha attribuito un giudizio più che eloquente in pagella: molto scarso. Siamo lo Stato che più di ogni altro, in Europa, è impantanato fra leggi nazionali, regionali e a scendere: una popolazione “intrappolata” fra lacci e lacciuoli che orienta sempre più il potere all’interno dei palazzi. Lo stesso dicasi della classe politica, che non sarà di qualità eccelsa come lo era un tempo, ma che alla fine è essa stessa vittima della burocrazia. Perché qualcuno ha tentato di mettervi mano, attuando una riforma che potesse quantomeno sbloccare la situazione; a quel punto, sono scesi in campo capi di gabinetto dei ministeri, Consiglio di Stato e Corte Costituzionale, pronti a bloccare ogni tentativo che vada a minare la staticità consolidata. E quindi anche ai politici, sotto questo profilo, c’è poco da imputare. La burocrazia, che in teoria dovrebbe fungere da garante della democrazia e della parità di trattamento fra persone, arriva in realtà a creare sperequazioni che in qualche caso sfociano pure nella corruzione: più complesse e intricate sono le regole e più i funzionari e gli addetti hanno la voce in capitolo, per cui il loro peso aumenta fino al punto di diventare determinante ed ecco spiegati i casi di corruzione. Di episodi che evidenziano la complicità fra funzionari pubblici, politica e malaffare è oramai piena la cronaca, né per l’opinione pubblica italiana è cambiato granchè con l’approvazione del “pacchetto anticorruzione”. L’Italia ha un indice del 26,9%, con l’assenza di corruzione pari al 100%. Poi – per carità – esistono esempi illuminanti anche di macchine amministrative che funzionano e che non temono confronti in Europa, ma la mancanza di trasparenza e gli adempimenti onerosi hanno spaccato il rapporto fra imprese e pubblici uffici e tolto ogni buon proposito a quegli stranieri che avrebbero voluto investire in Italia e che sono rimasti quasi schifati dalla ridondanza del nostro apparato burocratico. Eppure – come ha ribadito anche l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico - una macchina statale ben funzionante è presupposto basilare, tanto che la produttività media del lavoro delle imprese italiane risulta più elevata nelle zone con una più efficiente amministrazione pubblica. Al di là degli squilibri territoriali che ci caratterizzano – è noto che al nord l’efficienza sia maggiore che al sud – i dati della Cgia di Mestre mettono in evidenza come il cattivo funzionamento della macchina pubblica sia diventato il nemico numero uno di chi vuol fare impresa, con un costo medio per le realtà di piccole e medie dimensioni che ammonta a 7mila euro all’anno, considerando autorizzazioni, concessioni, certificati e la solita messe di carte bollate. Volete la controriprova? L’Italia è ultima nella classifica dei costi per avviare un’attività economica (che incidono per il 13,7% sul reddito pro-capite) e quart’ultima nella graduatoria sui giorni necessari per ottenere il permesso di costruire un capannone, ovvero 227,5, pari a 7 mesi. Quale futuro potrà avere davanti una nazione del genere? È auspicabile, con simili premesse, uno sviluppo economico e sociale in tempi brevi? Non dimenticando un altro aspetto: se lo Stato deve recuperare crediti oppure tasse, la burocrazia diventa “stranamente” efficiente, mentre se ti deve rimborsare qualcosa la mette in atto nella sua veste… migliore, costringendoti a fare il giro degli uffici, a compilare moduli e ad attendere spesso anche un anno, perché ha bisogno di prendersi tempo. Noi italiani paghiamo perciò in ultima analisi i costi di una struttura pesante che – come tale – è portata ad agire con lentezza, quando invece la celerità è tutto in un mondo caratterizzato da punti di non ritorno e da una globalizzazione che ha trasformato la competitività in un’arma da guerra. Prendiamo nel locale l’esempio dei lavori di rifacimento del muro di sfioro della diga di Montedoglio: a inizio anno, l’azienda che avrebbe dovuto provvedere rinuncia e allora si è dovuto indire una nuova gara; fra procedure di preparazione del bando e lasso di tempo per consentire la partecipazione delle aziende, si è arrivati all’estate; dopo la proclamazione della ditta scelta, è dovuto trascorrere altro tempo, messo a disposizione – per legge – delle ditte scartate per i loro eventuali ricorsi al Tar e poi, anche se tutto è filato liscio - vi è un altro periodo di tempo utile nel quale stipulare i contratti. Da febbraio 2019, l’inizio dei lavori è quindi slittato alla fine dell’anno. Peraltro – a proposito di bandi di gara, ma non è il caso di Montedoglio – a volte risulta complicato decifrarne i contenuti che sembrano proprio studiati “ad hoc” per invogliare i diretti interessati a ricorrere al Tar: meno chiarezza esiste e più le probabilità di ricorso aumentano, a causa di cavilli e cavillini che trovano terreno fertile in situazioni del genere. Come si può rendere facile e veloce ciò che adesso è invece difficile e lento? C’è chi ha proposto una soluzione alla francese o anche alla statunitense: il passaggio al privato dei dirigenti pubblici, magari attraverso un incentivo a questo cambio, ma il meccanismo non è semplice. L’altra alternativa è rivoluzionaria nella sua radicalità: azzeramento della burocrazia e Stato alleggerito che si affida quasi in toto al mercato. Via quindi al liberismo nella sua massima espressione, ma così facendo si attenta a una cultura italiana che vede comunque nella presenza del burocrate un segnale di democrazia rispetto alla percezione di una situazione caratterizzata dall’assenza di regole. A parole e in linea di principio, tutti i politici si dichiarano favorevoli nel combattere le pastoie burocratiche; anzi, sia in campagna elettorale che una volta eletti promettono revisioni. Ogni nuovo governo, ogni nuovo partito – se non altro per sconfessare quello avversario o l’esecutivo che lo ha preceduto – presenta una “riforma” per farsi bello con l’elettorato, abbastanza incurante dell’effetto concreto, che dipende da regolamenti attuativi destinati di solito a non vedere mai la luce. Molto di tutto questo è dovuto al ruolo del funzionario dell’ente locale che ha subito una profonda trasformazione per effetto della “riforma Bassanini”. A vent’anni dalla sua approvazione, possiamo vedere come questa riforma, per quanto positiva nelle sue intenzioni, si sia rivelata fallimentare e necessiti di una revisione. Forse è arrivato il momento di restituire al popolo, attraverso i suoi eletti, l’”ultima parola”: potrebbe essere la nuova strada per ridare slancio ad una economia stagnante. Se dunque i cosiddetti tecnici non si assumono le responsabilità derivanti dal loro (qualunque sia il motivo), è bene che le decisioni tornino in mano ai politici, quelli democraticamente eletti. Semprechè Tar e altri organi non vi rimettano lo zampino…

Domenico Gambacci
© Riproduzione riservata
18/12/2019 11:15:55

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Imprenditore molto conosciuto, persona schietta e decisa, da sempre poco incline ai compromessi. Opera nel campo dell’arredamento, dell’immobiliare e della comunicazione. Ha rivestito importanti e prestigiosi incarichi all’interno di numerosi enti, consorzi e associazioni sia a livello locale che nazionale. Profondo conoscitore delle dinamiche politiche ed economiche, è abituato a mettere la faccia in tutto quello che lo coinvolge. Ama scrivere ed esprimere le sue idee in maniera trasparente. d.gambacci@saturnocomunicazione.it


Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono in nessun modo la testata per cui collabora.


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