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Ragazzi fortunati… noi degli anni ‘60

“Siamo cresciuti nella spensieratezza assoluta, convinti che tutto fosse possibile”

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“Sono un ragazzo fortunato…” scrive il grande Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti. Presunzione? No, realismo. Siamo noi, quelli nati fra gli anni ’60 e ’70, forse la generazione più felice di sempre. Siamo nati nel boom economico, abbiamo vissuto un lungo periodo di pace, abbiamo conosciuto benessere e serenità, abbiamo vissuto la piena attuazione della Carta Costituzionale italiana che riconosce il diritto alla salute come un diritto fondamentale dell’individuo. Siamo anche quelli che hanno vissuto nella fase centrale tutte le rivoluzioni epocali del nostro tempo, quelli che hanno assistito a un’accelerazione così repentina del mondo che fino a cento anni fa vi sarebbero voluto secoli per fare ciò che è stato fatto in quarant’anni. In quinta elementare portavamo ancora i pantaloni corti (quelli lunghi, che vedevi come il primo gradino salito verso la maturità, sarebbero stati semmai il regalo di Natale alle medie); abbiamo assistito alla nascita e alla crescita di telefoni cellulari e smartphone e dei computer e dei tablet che hanno fatto delle macchine da scrivere un autentico cimelio. Il grande strattone lo ha poi dato internet, che è divenuto per noi necessario come il pane: e dire che fino a 35 anni non c’erano telefonini e web, eppure siamo campati lo stesso. Abbiamo assistito anche a diversi cambi di mentalità, alcuni in positivo e altri meno: certi tabù che imperavano quando eravamo piccoli adesso sono abbattuti. Eppure, alla soglia di un traguardo dei 60 anni che stiamo oramai per compiere (ma vale anche per chi la superato da poco come per chi è a quota 55), spesso avvertiamo una forte nostalgia di quel tempo e non perché l’unica preoccupazione era quella di fare il nostro dovere a scuola o perché eravamo giovani e non ci faceva fatica nulla: il vero motivo sta nell’ambiente che regnava allora e nell’atmosfera che respiravamo, frutto di una rinascita e di una speranza che erano divenute realtà dalle macerie della guerra proprio negli anni ’60, quelli del boom economico e del riscatto per la maggioranza delle famiglie, che se non altro potevano incrociarsi a testa alta anche con i “signorotti” del paese o della città. Siamo noi, gli ormai quasi sessantenni, che erano troppo piccoli per comprendere gli “anni di piombo”, l’epoca delle Brigate Rosse, di quel periodo che era stato ribattezzato “Strategia della tensione” e di quei rapimenti a scopo di estorsione che adesso sembrano scomparsi dalla scena. Siamo quelli cresciuti nella libertà assoluta delle estati di quattro mesi, delle lunghe vacanze al mare, del poter giocare ore e ore in strade e cortili, delle prime televisioni a colori e dei primi cartoni animati, dei chewing-gum “Big Babol” e delle cartoline attaccate alle bici con le mollette da bucato. Noi delle toppe sui jeans e delle merendine del Mulino Bianco, dei gelati Eldorado e dei ghiaccioli a 50 lire, dei mondiali dell’82 e della formazione dell’Italia a memoria, di Bearzot e Pertini che giocano a scopone con Zoff e Causio. Siamo quelli che andavano a scuola con il grembiule e la cartella sulle spalle e non ci si aspettava da noi nulla, salvo i compiti di scuola e poi giocare, sbucciarci le ginocchia senza lamentarci e non metterci nei guai. La televisione era fatta di “Lassie” e “Rin Tin Tin”, dei quiz di Mike Bongiorno, dei Caroselli prima di andare a letto, delle imitazioni di Alighiero Noschese (grazie Rai per restituirci ogni sera un pezzo di giovinezza con Techetechetè) e dei sex simbol, incarnati nelle lunghe cosce delle gemelle Kessler e nell’ombelico scoperto di Raffaella Carrà. Poi siamo cresciuti e il nostro inizio di maturità è coinciso negli anni ’80 con la musica pop, i paninari e il Walkman, Burghy e le spalline imbottite, Madonna e il Live Aid. Erano gli anni indimenticabili delle telefonate alle prime fidanzate (che si cambiavano dopo qualche mese, ma ci dicevano che dovevamo fare esperienza per conoscere un universo femminile più “abbottonato” di oggi anche negli approcci) con i gettoni dalle cabine e delle discoteche il sabato pomeriggio. L’era di Top Gun e Bruce Springsteen, l’era dei Duran Duran e degli Spandau Ballet; l’era delle gite scolastiche in pullman e delle prime vacanze studio all’estero. Poi c’erano gli esami di maturità e infine il servizio militare, ovvero 12 mesi lontano da casa, i capelli rasati, tante amicizie e una grande scuola di vita, che mi ha permesso di crescere e diventare un uomo. Per chi voleva continuare a studiare, l’università fuori sede era comunque una scuola di vita, alla pari del militare. A proposito: all’Università ci andavi solo se volevi fare il medico, l’avvocato o l’ingegnere. Con una differenza sostanziale: se prima dell’avvento del benessere questa era prerogativa solo del figlio del medico, dell’avvocato e dell’ingegnere, adesso anche il figlio dell’operaio emancipato era messo nelle stesse condizioni. Era magari un sacrificio, che il figlio ripagava a suon di 30 e lode e con una laurea presa a tempo di record. Un bel periodo, perché il lavoro c’era per tutti: siamo cresciuti nella spensieratezza assoluta e nella ferma convinzione che tutto quello che ci si aspettava da noi era che diventassimo grandi, che trovassimo un lavoro e una fidanzata, poi una moglie, i figli e che vivessimo la nostra vita. C’era insomma una sorta di schema preordinato: scuola, diploma, servizio militare o università (il militare lo avresti fatto con la laurea in mano), lavoro, matrimonio, famiglia e… casa, perché lavorando avevi la possibilità di stipulare tranquillamente quel mutuo che avresti estinto negli anni grazie allo stipendio tuo e della moglie. Già, la casa: l’obiettivo numero uno della vita, come ogni traguardo che conta. E quanto dispiace vedere oggi che Imu, tasse, balzelli e costi ti hanno avvelenato il fegato proprio sul versante nel quale noi italiani risparmiatori e formichine eravamo l’esempio da seguire. Il possesso di case e terreni era un tempo l’unità di misura della ricchezza di una persona o di una famiglia; oggi è invece un costo continuo e il desiderio primario è divenuto semmai quello di disfarsi delle case in più di proprietà, perché anche la pigione pagata dall’inquilino non arriva a compensare problemi e grattacapi. Quando eravamo ragazzi, non abbiamo mai dubitato un istante che non saremmo stati nient’altro che felici. E - dobbiamo ammetterlo - per quanto il futuro ci sembri difficile e per quanto questa situazione ci appaia incomprensibile e dolorosa, siamo stati felici. Schifosamente felici. Molto più dei nostri genitori e parecchio più dei nostri figli, ai quali – non per colpa nostra – per la prima volta lasciamo un mondo peggiore rispetto all’eredità di chi ci ha preceduto. Per quale motivo? Perché semplicemente sono venute meno tutte le certezze di allora, a cominciare da quella del posto di lavoro, per cui anche con il conseguimento di una laurea specialistica potresti ritrovarti a fare un qualcosa di diverso da quello che avevi desiderato per il tuo futuro. E meno male – verrebbe da dire – che un lavoro c’è, perché chi non lo ha o si ritrova a piedi all’età 50 anni sta decisamente peggio. Al contrario di oggi, in quel periodo i sogni avevano un’elevata probabilità di trasformarsi in realtà, sempre se ovviamente ognuno si impegnava; trovare un posto di lavoro era più semplice, tanto che chi conseguiva lauree specialistiche era atteso fuori dall’Università con una proposta di lavoro istantanea. Chiaro quindi che, con la sicurezza del posto di lavoro, anche l’età media di due giovani che volevano sposarsi era di gran lunga più bassa; c’era di mezzo poi la cultura prevalente dell’epoca, per cui alla figlia i genitori vietavano di andare in vacanza con il fidanzato ma in compenso esercitavano più pressing per farla sposare ancora giovane, sia perché la coppia si sarebbe potuta eventualmente godere più a lungo i figli, sia perché chi a una certa età (sopra i 25 anni per la donna, sopra i 30 per l’uomo) non si era ancora sposato avrebbe iniziato a portarsi addosso un’etichetta pesante: quella della zitella o – al maschile - dello zitellone. Se dopo quella data età una donna fosse rimasta nubile e un uomo celibe, voleva dire che qualcosa non aveva funzionato o che era poco chiaro: era la mentalità prevalente di allora, oggi largamente superata. Intanto, perché il posto di lavoro non arriva più con lo schiocco e poi perché i giovani di adesso, anche se economicamente a posto, non se la sentono di prendersi quelle responsabilità che fino a qualche decennio prima erano un obbligo (o quasi) imposto dalla famiglia. Quante volte ho sentito pronunciare questa frase da un padre o da una madre verso il figlio: “E’ arrivata l’ora che tu metta la testa a posto e che si sposi”. Adesso, invece, prevalgono la voglia di divertirsi e di non vincolarsi con i legami dal punto di vista giuridico, anche stando insieme: e pensare che un tempo le convivenze e le coppie di fatto erano viste come un’onta e un motivo di vergogna, accentuato anche da rigide posizioni religiose che con il tempo si sono ammorbidite. Ma vogliamo soffermarci sugli aspetti nostalgici e positivi della nostra giovinezza e quindi riprendiamo il nostro cammino con un’altra buona abitudine che si era radicata: per far capire il valore dell’impegno e del sacrificio – e per introdurlo a quella che sarebbe stata la realtà del domani – le famiglie nel periodo estivo trovavano un lavoro al figlio, che spesso consisteva nella classica stagione al mare o nella bottega di qualche artigiano. I soldi sarebbero serviti per la famiglia, per i vizi del ragazzo, ma anche per il suo conticino in banca. I genitori uscivano dal tremendo periodo della guerra e volevano che il figlio non vivesse le loro difficoltà, ma che si rendesse pur sempre conto fin da giovane delle responsabilità che avrebbe comportato la vita. E il bello – questo uno dei motivi di nostalgia – è che lo facevano insegnando il valore più bello: l’onestà e la correttezza. Tutto ciò che un ragazzo conquistava, doveva essere meritato sul campo: se eri stato promosso a scuola in giugno, bene; altrimenti, niente mare, piscina o ciò che piaceva; a Natale c’era sotto l’albero il regalo desiderato, ma sempre vincolato dal comportamento tenuto. Se poi avevi risposto male al maestro o il professore ti aveva messo una nota, meglio che a casa non si sapesse nulla: la punizione sarebbe stata sicura e senza discussioni, al contrario di ora, con i genitori che ricorrono al Tar se il figlio viene bocciato o che aggrediscono l’insegnante se gli ha dato un bonario rimprovero. Tanti altri gli esempi che ci fanno capire come il mondo sia cambiato e non certo in meglio: per esempio, un tempo vi era la possibilità di avvicinarsi alla politica in punta di piedi e di seguire una scuola di partito nella quale ti formavi stando in silenzio e ascoltando molto; oggi, invece, l’improvvisazione è tale che la qualità del dibattito è sensibilmente scaduta. Anche nelle situazioni più… animate – e facciamo un altro esempio - si è passati dalle sane scazzottate o una bella “slottatata” di un tempo (che spesso servivano per farci diventare amici) a episodi incresciosi e tragici come quello ancora fresco di Bastia Umbra, che è solo l’ultimo di una lunga serie. A un maggiore spirito di gruppo, si sono sostituiti con il tempo arroganza, strafottenza, individualismo e una caccia all’effimero che sono frutto anche dei modelli propinati dai media e dalle mode di oggi, per cui l’importante è l’esterno del contenitore, non ciò che sta dentro. E lo spirito di omologazione ha effetti spesso devastanti, per cui ai progressi della scienza, della tecnologia e anche della cultura fungono da contrappeso situazioni del genere. Che fare? I valori tradizionali rimangono attuali anche se il mondo corre a velocità supersoniche: di quel mondo tanto rimpianto, quando da ragazzi dovevamo conquistarci anche l’affetto di fidanzate meno intraprendenti di oggi, recuperiamo di conseguenza il meglio che si può applicare. Alla nostra età, che ci vede genitori e in molti casi addirittura nonni (mamma mia come è volato il tempo), per cui di elementi di valutazione ne abbiamo diversi: rispolveriamo lo spirito di allora e soprattutto trasmettiamo quei principi sani per il cui al mancato rispetto beccavamo qualche ceffone; che lipperlì ci avrà fatto male ma che poi è stato salutare. Anche nei confronti dei figli, ai quali tendiamo a elargire soldi e regali per vederli sempre sorridere, un minor assistenzialismo può essere la medicina giusta. Lasciamoli ogni tanto allo stato brado e a barcamenarsi da soli; o quantomeno, facciamo l’esperimento. Ricordo un giorno il noto psichiatrica e sociologo Paolo Crepet che ebbe a dire: “Per crescere, è importante a volte cadere per dimostrare di avere la capacità di rialzarsi, ma i figli di oggi non cadono perché i genitori non danno loro la possibilità di cadere. Così, il figlio non cade, ma quando poi dovrà affrontare realmente da solo determinate situazioni come si regolerà?”.

Domenico Gambacci
© Riproduzione riservata
21/09/2020 11:46:50

Punti di Vista

Imprenditore molto conosciuto, persona schietta e decisa, da sempre poco incline ai compromessi. Opera nel campo dell’arredamento, dell’immobiliare e della comunicazione. Ha rivestito importanti e prestigiosi incarichi all’interno di numerosi enti, consorzi e associazioni sia a livello locale che nazionale. Profondo conoscitore delle dinamiche politiche ed economiche, è abituato a mettere la faccia in tutto quello che lo coinvolge. Ama scrivere ed esprimere le sue idee in maniera trasparente. d.gambacci@saturnocomunicazione.it


Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono in nessun modo la testata per cui collabora.


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