Opinionisti Mariantonietta Nania
La festa dei morti
La morte resta il più grande mistero irrisolto e irrisolvibile della nostra storia
A grandi passi, se non per il freddo, almeno per il buio, stiamo avanzando verso l’inverno: la Natura si prepara, spegnendosi un po’ ogni giorno, a morire o a resistere. Colori di fiamme, profumi intensi di cose buone ci incantano e ci distraggono, piovono foglie dorate, esplodono tramonti, ma la luce perde forza.
In che periodo dell’anno collocare una ricorrenza dedicata ai defunti, se non in autunno inoltrato? Viene da sé, il pensiero di qualcosa che finisce, che riposa e si trasforma. Noi siamo Natura e seguiamo (in ogni stagione) il destino delle creature. C’è qualcosa di mistico nel guardare intere montagne che cambiano colore per poi spogliarsi e rivolgere al cielo, stecchiti, i rami dei loro boschi, nel seguire il volo di una foglia gialla, incerta, leggera che finisce per adagiarsi a terra.
Impossibile non pensare ai legami che si spezzano, al dolore del lasciar andare, all’albero che, come cerchiamo di fare noi, trattiene linfa e ricordi delle chiome andate confidando nella vita, che in qualche modo, si trasforma e promette di ricominciare.
In realtà ho l’impressione che siamo noi esseri umani, così attaccati consapevolmente alla vita, a soffrire di più di fronte a tutto questo. La morte resta il più grande mistero irrisolto e irrisolvibile della nostra storia, eppure è l’unica vera certezza che abbiamo e che ci accomuna assolutamente tutti.
E’ ciò che di più democratico abbiamo, per dirlo con una parola di cui ci si riempie spesso la bocca al giorno d’oggi. E non può non venirmi in mente un capolavoro del principe Antonio De Curtis, in arte Totò: ‘A livella, cioè “La livella”.
Totò era originario del Rione Sanità, a Napoli, e da piccolo giocava spesso a nascondino alle catacombe di San Gaudioso. Lì c’era un affresco che raffigurava uno scheletro come simbolo della natura effimera dei beni mondani che nessuno si porta nell’aldilà, per quanto potente possa essere. Questo suo poema vuole dire proprio, attraverso una scenetta tragico-ironica, che la morte è una livella, appiana tutte le differenze, rimette tutti sullo stesso piano. Totò, un po’ in italiano e un po’ in napoletano, racconta un incontro avvenuto un due novembre, in occasione della festa dei morti. Senza accorgersi di lui, rimasto chiuso all’interno del cimitero, si mettono a discutere la buonanima di un umile netturbino con quella di uno spocchioso marchese. Il marchese è scandalizzato per il fatto di essersi ritrovato accanto la sepoltura di un poveraccio, proprio lui, blasonato, pieno di stemmi, marmi, rose e candele. Lo considera un affronto al suo buon nome e alla sua nobiltà. Il netturbino, all’inizio si scusa, dicendo di non essere responsabile di quella collocazione, visto che è morto, ma dopo l’arrogante insistenza del riccone alza con saggezza la voce e conclude pronunciando parole che mi mettono i brividi ogni volta:
“Perciò, stamme a ssenti’... nun fa' 'o restivo,
suppuorteme vicino - che te 'mporta?
Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive:
nuje simmo serie... appartenimmo â morte!".
(Stammi a sentire, non fare l’insofferente,
sopportami vicino, che ti importa?
Queste pagliacciate le fanno solo i vivi:
noi siamo seri… apparteniamo alla morte!)
Sentirsi superiori, umiliare gli altri, infierire là dove già la vita ha bastonato, queste son le pagliacciate: un’illusione di grandezza e potenza che poi la morte appiattisce e spiana. Quanto cambiano le prospettive se solo ci troviamo di fronte a qualcosa che mette a repentaglio la nostra vita o quella dei nostri cari? Di fronte a una grave malattia, a un incidente, alla possibilità che tutto finisca anzitempo, senza che ci sentiamo pronti? Cambiano completamente. Se non ci si abbandona alla disperazione troviamo risorse per rimettere in ordine le vere priorità della vita e tutto a un tratto ne apprezziamo ciò che prima davamo per scontato, i momenti, gli affetti, la natura, la capacità di dare… E’ molto difficile che tra quelle priorità non notate prima ci siano possedimenti, titoli e blasoni. Siamo appesi a un filo eppure non riusciamo a rimanere focalizzati su ciò che è davvero importante. A volte sono proprio le grandi batoste che ci aprono gli occhi. La vita è un grande dono, forse la si può vedere come un semenzaio in cui piantare semi di piante che daranno frutto quando non saremo più fisicamente vivi. Sta a ognuno di noi decidere cosa seminare, se investimenti danarosi o amore (magari entrambi, chi può).
Chiunque di noi abbia sperimentato il distacco da una persona cara può affermare e condividere che “nulla muore, se è passato dal cuore”; ciò che resta è l’amore che abbiamo ricevuto e che diamo, la memoria, il calore di un incontro di anime di cui una, semplicemente, non ha più corpo.
Beato chi ha abbastanza fede da sapere che nessuna goccia d’amore va perduta, nessuna lacrima. Ai semi servono anche quelle.
Sarà per questo che la commemorazione del due novembre la chiamiamo “Festa dei morti”? Contrariamente ad altri popoli e ad altre culture, noi non siamo bravi, nonostante la tradizione cattolica, a vivere la morte come una festa. Troppo dolore. Eppure è una festa ed abbraccia quella dei santi: sfumano l’una nell’altra per ricordarci che le anime dei nostri cari, oltre a starsene nei nostri cuori, sono beatamente nell’eterna letizia e nella pace, non sotto i marmi dei cimiteri (tanto meno tra le zucche, i mostri e i pipistrelli).
Filastrocca per la morte del nonno
Caro nonno, son passati tanti giorni.
Ho aspettato e ho capito che non torni:
ti hanno messo come un seme in un bell'orto
ho guardato e ho capito che sei morto
vorrei farti ritornare, ma non posso
nel mio cuore il dolore ha fatto un fosso
in quel fosso come un seme ti ho sepolto
e per innaffiarti bene ho pianto molto.
E’ venuta primavera e sei fiorito
quando il pianto dei miei occhi era finito,
ora è maggio e oramai non piango più
nel giardino son fioriti i gigli blu
e io ancora non ti vedo, però ora so perché:
non ti vedo perché sei dentro di me.
Bruno Tognolini
Mariantonietta Nania
MARIANATONIETTA NANIA: Nata a Napoli nel 1970, vive da sempre tra Umbria e Toscana. Dopo la laurea in Pedagogia, una borsa di studio in Psicologia Sociale l’ha portata come ricercatrice in Egitto alla scoperta delle fiabe arabe. Al Cairo ha trascorso quasi tre importantissimi anni, anche insegnando al Liceo Scientifico internazionale italiano Leonardo da Vinci. Ha vissuto e lavorato a Roma e Palermo per stabilirsi poi a Sansepolcro (AR) e tornare all’insegnamento, ma nella Scuola Primaria. Ama viaggiare, leggere, scrivere, far foto, dipingere e cantare.
Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono in nessun modo la testata per cui collabora.
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