Vermouth del Professore
Non è un liquore, non è un distillato, è semplicemente un vino
La sua invenzione risale al 1786 per opera di Antonio Benedetto Carpano, all’epoca aiutante di un produttore di liquori che rispondeva al nome di Merendazzo.
Secondo la storiografia egli apprezzò moltissimo le doti organolettiche del vino da uva moscato, ma volle dargli un’interpretazione un po’ acconciata, attingendo a certe regole di miscelatura alchemica che i frati delle valli del Biellese già adottavano.
Iniziò ad addizionare al vino erbe aromatiche, erbe officinali e spezie, (si citano: assenzio, genziana, maggiorana, zeznzero, vaniglia in stecca di legno, melissa, timo, salvia, luppolo, bacche di sambuco, camomilla, semi di finocchio, zafferano, melograno e chiodi di garofano) e dette finalmente alla luce il Vermouth.
Una novità assoluta per quegli anni, tanto che non attirò solo il gusto dei torinesi, ma oltrepassò ben presto i confini sabaudi e sbarcò in Francia con grande successo.
La sua espansione creò molti problemi agli infusi alcolici in voga in quell’epoca, come il nocino e il rosolio, però il viaggio era iniziato in pompa magna e quel viaggio, oggi, sta continuando a mostrare al mondo intero quel certo meglio della creatività, dell’intelligenza e del savoir fair di quell’Italia antica nei valori e nelle tradizioni, ma spregiudicatamente affabulatrice nel marketing e nel creare appeal per questo prodotto.
La nobile arte dell’infusione alcolica ha segnato la storia di una certa intraprendente industria piemontese, ed è con orgoglio che citiamo Cora, Gancia, Cinzano, Calissano, Martini & Rossi e altri preziosi maestri impossibili da citare per non creare un elenco telefonico.
Questa nobile arte dei “vermuttieri” è in grado ancora di ammaliare le menti del nuovo millennio, tanto che il mercato offre oggi un Vermouth nuovissimo e insieme antico e artigianale.
La joint venture tra Carlo Quaglia, distillatore fin dal 1890 a Castelnuovo Don Bosco, Federico Ricatto e lo Speakeasy di Roma con il suo Jerry Thomas Project ha prodotto un Vermouth che allunga i momenti del pensare miscelato fino alla fine del 1700.
Dire che la ricetta è semplice è prendersi in giro, sono semplici i nomi degli ingredienti, ma la “pozione” intellettuale del concepire vino, alcool e naturalità in erbe e spezie è molto, molto complicata.
Il vino è un moscato bianco langarolo, a cui è stato aggiunto alcool purissimo e di raffinata distillazione (arriverà fino a 18°), poi una quindicina tra erbe aromatiche e officinali raccolte sui declivi alpini che contornano Torino e delle spezie. Lo zucchero immesso è di zucchero di canna purissimo e raffinato da poco.
Vermouth del Professore si chiama questo prodotto davvero lontano dagli stereotipi dei vini aromatizzati, sempre chiamati Vermouth, che creano eccelsi cocktail come il Negroni o l’Americano.
Il Vermouth del Professore è stato creato con uno scopo ben definito, quello di riappropriarsi del ruolo che deve competergli, quello di aperitivo.
L’occhio resta affascinato dal colore giallo ambrato, come effetto marsala, l’olfatto fluttua su fumi di essenze, d’assenzio, di amaro e di paglia secca; è un ricordo atavico, di scaffali di legno mogano intrisi di quella parte di miscela farmaceutica che usa i frutti della natura per comporre tisane, aerosol e unguenti. La sottile sensazione tattile composta dall’alcool etilico, riesce a restare in equilibrio con il suo calore (da mitigare con temperatura di servizio adeguata) e con gli spunti di sapore, anche rinfrescante, prodotti dall’infusione di erbe e spezie. Il filo armonioso del gusto amaricante chiude con tonalità chinate e di ginger, che assorbono senza ucciderlo la presenza dello zucchero per creare un effetto gemellare: amabile e amaricante.
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