Opinionisti Claudio Cherubini

Federigo Bobini, da piccolo malvivente a disperato latitante

”Porta in tasca un coltello fatto a cricche. Per soprannome fu chiamato Gnicche”

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“Se Apollo assisterà la mente mia, / Che possa carmeggiar d’ottava rima, / E con l’aiuto di Gesù e Maria / Arriverò dell’argomento in cima; / Spero non sarà tempo buttato via, / Benché storie non fei, questa è la prima: / Vita e morte racconto e vi raffino / D’un giovane scorretto il rio destino, / Federigo Bobin da piccolino / Appunto principiava a camminare; / Di campagnolo si fe’ cittadino; / E il padre dentro Arezzo andiede a stare, / Questo ragazzo fa come lo spino, / Che nasce aguzzo perché vuol bucare: / Porta in tasca un coltello fatto a cricche: / Per soprannome fu chiamato Gnicche.” Queste sono le prime due ottave (in totale sono 35) della versione pubblicata dalla tipografia Salani di Firenze nel 1895 della storia di Federigo Bobini, detto Gnicche, scritta da Giovanni Fantoni.

Alla costruzione del mito del più famoso brigante dell’aretino “portò uno straordinario contributo proprio Giovanni Fantoni, il poeta popolare di Ponte Buriano, con le sue ottave della Storia di Federigo Bobini detto Gnicche, come evidenzia l’aretino Enzo Gradassi nel bel libro del 2018 intitolato Sopracchiamato Gnicche, dove l’autore ripulisce l’immagine leggendaria e stereotipata costruita intorno a questo personaggio a partire dai suoi contemporanei fino ai giorni nostri, spesso anche con aneddoti falsi o comunque senza alcun fondamento reale.

Innanzitutto il soprannome di Federigo non derivava dal “coltello fatto a cricche” che avrebbe portato in tasca secondo il Fantoni, il quale aveva la necessità di trovare una rima baciata con Gnicche. In un processo il Bobini fu chiamato il figlio della Nicche: il nome della madre era Domenica che sotto l’occupazione francese era diventato Dominique storpiato nel dialetto aretino in Dominicche. Poi nella parlata di Arezzo la n diventa gn e così il figlio della Nicche si chiamò Gnicche, forse anche con la pronuncia francesizzata tanto che nelle cronache del tempo talvolta Gnicche è scritto Gnich o Gnic.

Nel libro Sopracchiamato Gnicche, da cui attingiamo per raccontare queste note, Enzo Gradassi ripercorre la vita di Federigo Bobini attraverso gli atti giudiziari e la cala nel contesto storico e sociale del tempo, liberandola dal mito disegnato dal “l’immaginario di una decina di generazioni di aretini che si sono lasciate affascinare dalla leggenda del presunto eroe locale – sono parole del Gradassi – un po’ ribelle e un po’ mascalzone, cantato dal poeta e descritto nelle veglie come un impertinente rubacuori, vendicatore dei torti della povera gente, giustiziere di spie e delatori, capace di farsi gioco di Polizia e Carabinieri come un impareggiabile dissidente, ribelle alle regole, alle leggi e all’ordine costituito. Una sorta di Robin Hood nostrano […] avvolto nella leggenda che, nel tempo, si è nutrita di storie inventate e aneddoti fantasiosi, […]”.

Federigo Bobini nacque ad Arezzo il 19 giugno 1845 da Sebastiano, bracciante, e Domenica Lazzeri, lavandaia. Dal lavoro dei genitori si deduce la povertà della famiglia e già all’età di 14 anni Federigo finì in carcere per due giorni coinvolto in una vicenda di furti campestri. Sei anni dopo fu di nuovo arrestato sempre per furti campestri e fu fatta valere la precedente condanna; così oltre i due giorni di prigione gli fu proibito di entrare “nelle macchie e nei fondi altrui, come dire in tutti” commenta il Gradassi. La storia prosegue con il racconto dei successivi problemi giudiziari del Bobini per aver ferito un avversario in una rissa fra bande cittadine rivali, per resistenza alla forza pubblica, per falsa testimonianza (per quest’ultima accusa fu assolto, ma intanto si era fatto sedici mesi perché tanto era durato il processo), per diversi furti ad Arezzo, in Casentino, in Val di Chiana e anche in Valtiberina, anche a Sansepolcro. Furti che smentiscono “la diceria secondo la quale Gnicche rubava ai ricchi per dare ai poveri”, confermando invece l’assenza di complicità e protezioni da parte della gente comune che si vedeva derubata da ciò che guadagnava con l’onesto lavoro.

Fondamentalmente, almeno fino ad un paio di anni prima della morte, Federigo Bobini “restava una figura sbiadita di malvivente urbano, di giovane con lo stigma dei sottoproletariati, poco incline al lavoro, attaccabrighe violento, ladro, bugiardo, puttaniere e sifilitico. Che, in risposta al suo modo di concepire l’esistenza ai margini, o al di là della legge, aveva trovato sulla propria strada il carcere cittadino dove era stato rinchiuso”. Del resto sempre usando le parole del Gradassi “i fratelli di Federigo non erano meglio di lui”.

Il figlio della Nicche fece il “salto” irreversibile verso la criminalità nella notte del 18 agosto 1869. Quella notte rientrò a casa, era già ricercato da qualche giorno per furto. Si prese a parole con il babbo, che biasimava il suo comportamento, e lo aggredì tanto che Sebastiano andò all’ospedale a medicarsi; la Pretura procedette d’ufficio contro Federigo e venne pronunciata una sentenza in contumacia. Iniziò così la latitanza alla macchia e Gnicche dovette ricorrere al furto di strada. Fino ad allora, a parte quella rissa di cui si è detto dove era venuta fuori una lama senza impugnatura, non aveva mai usato un’arma. Invece ora invece a mano armata fermava le persone per strada per derubarle: fu accusato dal veterinario Orazio Grazzini di Arezzo di averlo minacciato a volto coperto e armato di fucile e di averlo derubato di 25 lire, il 3 ottobre del 1869 sulla via di Quarata.

Da allora le azioni di Gnicche furono sempre più violente e prepotenti senza distinzione tra ricchi e poveri fino a commettere omicidi, ma di questo ne parleremo la prossima volta.

PRIMA PARTE

Claudio Cherubini
© Riproduzione riservata
19/10/2022 09:35:34

Claudio Cherubini

Imprenditore e storico locale dell’economia del XIX e XX secolo - Fin dal 1978 collabora con vari periodici locali. Ha tenuto diverse conferenze su temi di storia locale e lezioni all’Università dell’Età Libera di Sansepolcro. Ha pubblicato due libri: nel 2003 “Terra d’imprenditori. Appunti di storia economica della Valtiberina toscana preindustriale” e nel 2016 “Una storia in disparte. Il lavoro delle donne e la prima industrializzazione a Sansepolcro e in Valtiberina toscana (1861-1940)”. Nel 2017 ha curato la mostra e il catalogo “190 anni di Buitoni. 1827-2017” e ha organizzato un ciclo di conferenza con i più autorevoli studiosi universitari della Buitoni di cui ha curato gli atti che sono usciti nel 2021 con il titolo “Il pastificio Buitoni. Sviluppo e declino di un’industria italiana (1827-2017)”. Ha pubblicato oltre cinquanta saggi storici in opere collettive come “Arezzo e la Toscana nel Regno d’Italia (1861-1946)” nel 2011, “La Nostra Storia. Lezioni sulla Storia di Sansepolcro. Età Moderna e Contemporanea” nel 2012, “Ritratti di donne aretine” nel 2015, “190 anni di Buitoni. 1827-2017” nel 2017, “Appunti per la storia della Valcerfone. Vol. II” nel 2017 e in riviste scientifiche come «Pagine Altotiberine», quadrimestrale dell'Associazione storica dell'Alta Valle del Tevere, su «Notizie di Storia», periodico della Società Storica Aretina, su «Annali aretini», rivista della Fraternita del Laici di Arezzo, su «Rassegna Storica Toscana», organo della Società toscana per la storia del Risorgimento, su «Proposte e Ricerche. Economia e società nella storia dell’Italia centrale», rivista delle Università Politecnica delle Marche (Ancona), Università degli Studi di Camerino, Università degli Studi “G. d’Annunzio” (Chieti-Pescara), Università degli Studi di Macerata, Università degli Studi di Perugia, Università degli Studi della Repubblica di San Marino.


Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono in nessun modo la testata per cui collabora.


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