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Oscar, trionfo di Oppenheimer e di Emma Stone che si rompe pure il vestito

Vittorie per Cillian Murphy, Robert Downey Jr. e Billie Eilish. Niente da fare per Garrone

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Il “padre” della bomba atomica, J. Robert Oppenheimer, Hayao Miyazaki e la sua magia-testamento, Emma Stone (altro che Povere creatura!), rivelazioni, il nudo di John Cena, la performance dell’anno (canterina) di Ryan Gosling, l’attualità (politica e di pace) nei messaggi dal palco, con riferimenti ai conflitti in atto tra Ucraina e Russia, e in Israele. Insomma eccovi gli Oscar, edizione numero 96, che monopolizzano (meno) il sonno di tanti, o la sera, di chi, come noi, vede la cerimonia direttamente a New York, godendosi lo spettacolo, e senza (prima volta in 30 anni) fare le ore piccole. Il rituale sacro va in scena nel tempio dorato del Dolby Theatre di Los Angeles, dove ancora, tutto, o quasi, scorre secondo pronostici, regalando nel finale una sorpresa importante, fino ad un certo punto, nella categoria miglior attrice, sancendo invece, inequivocabilmente, il trionfo, annunciato da Mr. Al Pacino, di Oppenheimer con ben sette statuette.

Nolan pigliatutto

Ed è soprattutto la serata di Christopher Nolan, premiato da Steven Spielberg, vincente (era ora!) come miglior regia.

Un momento storico e di storia, nel ritrarre la figura di J. Robert Oppenheimer, il fisico chiamato alla direzione del famoso “Progetto Manhattan”, quello che contribuì a dare forma (e morte) alla bomba atomica, e al successivo processo ai suoi danni. Una sfida straordinaria di tre ore, girata in pellicola, per raccontare l’uomo e la sua ambizione da un lato, lo scontro con un dilemma morale ed esistenziale, poco dopo lo sgancio delle bombe su Nagasaki e Hiroshima, dall’altro, che lo mise al centro di un’inchiesta, accusato di essere addirittura una spia russa, vittima del sistema che lui stesso aveva creato. Un moderno prometeo americano, un guru del nucleare (finito sulla copertina del Time, ricevuto dall’allora presidente americano Harry Truman) che, come nella mitologia, diede a sua volta il fuoco e il potere (di distruggere) con la propria invenzione a un mondo, però, non ancora pronto. Un film semplicemente straordinario, in cui il tempo (e il conto alla rovescia) scandiscono oltremodo le lancette di una missione orribile, ma inevitabile.

L’artefice-carnefice di tutto, un martire manipolato, un personaggio poi “assolto” dalla storia, e che gli Oscar hanno sancito nelle categorie tecniche, fotografia, montaggio, la colonna sonora di Ludwig Göransson, e portando sul palco i due interpreti-simbolo, Cillian Murphy, miglior attore protagonista “dedico la vittoria a chi si impegna per la pace”, ha detto, e Robert Downey Jr. (lo avevamo auspicato e promosso già da mesi) come miglior attore non protagonista, che ringrazi la sua “terribile adolescenza, l’Academy, e infine la moglie per avergli ridato la vita”. Era già scritto, ma mancava vederlo rappresentato. Detto, fatto, anche se qualcuno sperava in qualche “ribaltone”.

Emma Stone e Billie Eilish, regine femministe e moderne

I boomaker e i titolisti, qui, erano già pronti per Lily Gladstone in Killlers of The Flower Moon di Martin Scorsese (sconfitto illustre di nottata, dieci nomination, zero statuette) la prima attrice nativa americana a vincere un Oscar, ed invece Emma Stone compie il sorpasso, neanche lei ci crede, conquistando la seconda statuetta sette anni dopoLa La Land. Vittoria e vestito rotto dall’emozione (sulla schiena), per l’interpretazione di Bella Baxter in Povere Creature! di Yorgos Lanthimos, film che conquista le statuette per i costumi, scenografia e make up. Bella e bravissima, in un film folle, ironico, eccentrico e moderno, ambientato nell’Inghilterra vittoriana che, adattando il romanzo originale scritto nel 1992 da Alasdair Gray, vira al contemporaneo, rispondendo a una domanda-riflessione: cosa farebbe una donna se partisse da zero? Cercherebbe di vedere le cose da punti di vista diversi, proprio come fa la protagonista, ne scoprirebbe il valore, esplorerebbe le proprie pulsioni, cerebrali e sessuali, maturando esperienza, consapevolezza, trovando sé stessa, lontana da uomini manipolatori, ed uscendone risoluta, indipendente, libera. Per una Emma Stone che (ri)vince, c’è una Billie Eilish che ne emula le gesta: secondo Oscar in tre anni, miglior canzone originale, per la bellissima e struggente What Was I Made For?, scritta-composta insieme al fratello Finneas O’Connor per Barbie di Greta Gerwig, altro titolo uscito malconcio dagli Oscar, nonostante il botteghino da record.

Guerra, pace (e orgoglio)

Due momenti significativi. Il primo arriva da Jonathan Glazer, il regista-autore di uno dei film migliori della stagione passata, uscito lo scorso febbraio, La zona d’interesse (Oscar anche al suono), che dal palco fa un discorso accorato, sentito, importante, dedicandolo a “chi ancora resiste”, e sottolineando che “tutte le nostre scelte sono state fatte per il presente, il film è una riflessione sul passato ma anche sull'oggi e sulla nostra disumanizzazione. Questa occupazione sta creando molto dolore: che siano le vittime del 7 ottobre e quelle degli attacchi a Gaza sono tutte vittime di questa disumanizzazione”. Il film è la storia di una famiglia tedesca dalla vita apparentemente normale, fatta di gite in barca, il lavoro d’ufficio del padre, le domeniche passate a pescare al fiume. Peccato che l’uomo in questione sia Rudolf Höss, comandante del campo di concentramento ad Auschwitz, e la villetta, in cui vive con i figli e la moglie, questa surreale serenità, sia situata proprio adiacente all’orrore. Il secondo arriva nella categoria miglior documentario andato a

20 giorni a Mariupol di Mstyslav Černov, con Michelle Mizner e Raney Aronson-Rath, che segue i primi momenti dell'invasione russa in Ucraina, e in particolare l'assedio e la distruzione della città di Mariupol di due anni fa, visto dallo stesso Černov in trincea, tra i soldati, rischiando la propria pelle. “Questo è il primo Oscar nella storia dell’Ucraina, ha detto. “Potrei essere il primo regista a dire che vorrei non aver mai fatto questo film, vorrei essere in grado di scambiare questa statuetta, perché la Russia non avesse mai attaccato la nostra città e il nostro territorio”.

Maestri (vincenti e assente), storie di riscatto e sconfitte digeribili 

L’animazione illuminata, magica, di Hayao Miyazaki (non presente) batte il fantasmagorico Spider-Man: Across the Spider-Verse, vince un altro Oscar, il secondo (sarebbe il terzo, se contiamo quello onorario ricevuto nel) per l’ultimo capolavoro-testamento, Il ragazzo e l’airone. E così accade a Wes Anderson, pure lui non presente, in quando impegnato sul nuovo set) che, dopo addirittura sette nomination andate a vuoto, vince nella categoria di miglior cortometraggio per La meravigliosa storia di Henry Sugar, uscito direttamente su Netflix.

E poi c’è la bella conferma di Da'Vine Joy Randolph, miglior attrice non protagonista per The Holdovers – Lezioni  di vita di Alexander Payne, nei panni di una cuoca afroamericana, che ha appena perso il figlio in Vietnam, rimasta a lavorare durante le feste di Natale in un college negli anni ‘70, insieme ad un integerrimo docente e ad uno studente.

Niente da fare per Garrone: vince "la zona di interesse"

Niente da fare per il nostro Matteo Garrone e Io capitano, arrivati nella cinquina di miglior film internazionale, ma battuti appunto da La zona d’interesse. Una sconfitta indolore, per un film che, dai riconoscimenti dell’ultima Mostra Internazionale de Cinema di Venezia, ha veleggiato nel mondo, raccogliendo elogi e consensi indiscussi.

Più indigesti le caselle vuote per il già detto Martin Scorsese e Bradley Cooper, regista, produttore e attore (la sua interpretazione avrebbe meritato) in Maestro, lasciato in disparte dall’Academy, ma già sfavorito in partenza.

I momenti cult e i film-rivelazione (da recuperare)

Ryan Gosling, mattatore, cantando “I’m Just Ken”, omonima canzone inserita in Barbie, e riproposta dal palco in una memorabile interpretazione, è già di culto in rete, così come il nudo (scherzoso) di John Cena, premiando nella categoria dei migliori costumi, quelli che lui (volutamente da copione) non aveva addosso. E infine le sceneggiatura, quella originale, andata a Justine Triet e Arthur Harati in uno dei titoli-rivelazione, il legal thriller Anatomia di una caduta, Palma d’Oro a Cannes nel 2023, e quella non originale andata a Cord Jefferson per American Fiction.

Notizia tratta da tiscali.it
© Riproduzione riservata
11/03/2024 15:23:04


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