Lanfranco Rosati e la “Civiltà Appenninica”
"Dietro la semplicità una ricchezza straordinaria di idee"
La scomparsa, in questi giorni, del professor Lanfranco Rosati, ha messo in evidenza le attività che hanno caratterizzato la sua laboriosa esistenza, dal giornalismo, alla pedagogia. Nella messe delle sue attività, che non devono essere perdute, vorrei aggiungere il ruolo avuto da L. Rosati nell’ambito della costituzione del Centro Interregionale di Studi e di Ricerche della Civiltà Appenninica, di cui fu membro attivo nel Consiglio Scientifico. Preceduto da un intenso lavoro nei territori, con un’assemblea pubblica nel maggio 1975 a Sestino, ma con l’intento di estendere l’attività alle varie Comunità Montane dell’Appennino centrale, il primo convegno scientifico-organizzativo fu tenuto proprio a Garavelle di Città di Castello, per la sensibilità dimostrata da Lanfranco, dalla allora Banca di Credito Cooperativo di Città di Castello, dagli amministratori castellani e biturgensi. Rosati riuscì ad attivare una numerosa serie di giornalisti, che scrissero su ciò- e sui successivi convegni - a Sansepolcro come a Camaldoli e Sestino - pagine di profondo interesse. Lui stesso premetteva, su La Nazione, che l’interesse per la civiltà contadina “ha il volto del nostro passato e lo sguardo alla contemporaneità”. “L’iniziativa ci costringe a riscoprire la civiltà degli Appennini. Un modo semplice: riscoprire la vita e risolvere i tanti problemi quotidiani. Ma dietro la semplicità una ricchezza straordinaria di idee, di fedi, di filosofia”, come dimostrato dagli impulsi provenienti dal propulsore Sestino. E presentando ad un convegno iniziale Fabio Tombari: “Il rischio oggi è di mummificare questa stessa cultura che grida invece d’essere apprezzata perché è costata fatiche tremende e sudore a rivoli ai lavoratori che hanno chiesto alla terra un po’ di pane”. Le attività del Centro Studi, nella fase iniziale, non affrontavano solo i temi specifici antropologici, sociologici, etnici ma cercavano una “didattica” della ricerca, occorreva formare giovani - e chiunque avesse avuto interesse - e soprattutto costituire una pedagogia di base specifica, per una ricerca nei vari territori riconducibile a tecniche omogenee e perciò leggibili a largo respiro, senza rimanere impulsivi sui singoli casi o sulle micro-aree. Parimenti necessitava avvicinare il mondo della scuola, ancora “vivente” tra residui protagonisti del “mondo contadino”, alla consapevolezza di “fare memoria”. Mentre Vittorio Dini, come presidente, studiava collegamenti interdisciplinari, Lanfranco, insieme a Cosimo Scaglioso dell’Università di Siena e a docenti provenienti da varie zone d’Italia, collaborava per la didattica nei corsi specifici, per la scuola, per aspetti particolari di lavori pedagogici e didattici attivati dal Centro Studi, perché nella modernizzazione della scuola allora in corso, il “passato” non fosse solo storia di epoche, ma “vita vissuta”.
Giancarlo Renzi
Erano momenti - gli anni Settanta - di un ampio dibattito sulla scuola, non vista come qualcosa di elitario ma – e certamente faccio torto all’intero pensiero di Lanfranco - “negli aspetti della cultura locale si possono cogliere le tendenze germinative di un sapere che troverà successivamente ulteriori sviluppi e approfondimenti”, scriveva - sempre fedele ai “valori” costitutivi del Centro Studi, in un saggio del 1987 su “Formazione e società”.
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