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Politica ieri e politica oggi: un grande scadimento di livello

Nella logica degli interessi personali, le ideologie vanno a farsi benedire

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Spettacolarizzazione, individualismo, populismo, attacchi a volte anche personali, colpi bassi e dichiarazioni eclatanti, prive magari di sostanza ma pur sempre di effetto. Sono le principali “devianze” che accompagnano l’attuale modo di fare politica in Italia rispetto alle forme più garbate di qualche decennio fa. In queste ultime settimane, l’informazione sia sulla carta stampata che nei notiziari televisivi è stata monopolizzata dalla crisi di Governo. In tv, ho osservato come i dibattiti fra i vari leader politici, o presunti tali, siano sempre più basati non su ragionamenti articolati ma su slogan e su frasi stereotipate che di volta in volta vengono estratte dalla valigetta portata appresso da ciascuno di loro; una sorta di kit di sopravvivenza che sopperisce alla mancanza di idee. E’ molto più facile etichettare l’avversario come fascista, razzista, comunista, buonista ecc., che motivare il proprio dissenso. Sono abbastanza anziano per ricordare le tribune politiche nelle quali uomini come Moro, Zaccagnini, Fanfani, Berlinguer, Almirante, Craxi e gli altri cercavano di esporre le loro idee con riflessioni e ragionamenti. Forse, la causa di questa semplicistica evoluzione del dibattito politico va ricercata, oltreché nella pochezza dell’attuale classe politica, anche nei nuovi strumenti di comunicazione: sms, Twitter, Facebook e Instagram, che - obbligando all’utilizzo di poche parole - impoveriscono il vocabolario individuale. Ma certamente, le caratteristiche di uno strumento che consente, ad esempio, di scrivere la frase “Ti voglio bene” con il più semplice acronimo TVB, non possono andare bene per esporre un pensiero politico. Senza dimenticare che questi strumenti si sono negli ultimi anni “imbarbariti” e “infarciti” di “fake news”. E allora, dove sta la carenza di fondo? Forse dovremmo chiederci, un po’ provocatoriamente ma non tanto, se oggi esista un pensiero politico. O almeno, se ha ancora un senso parlarne. In passato, nella cosiddetta “prima repubblica”, la politica era anche battaglia culturale. In gioco c’era la conquista dell’egemonia nella società: vinceva chi riusciva a imporre la propria visione del mondo. Era uno scontro di idee, consumato essenzialmente su libri, giornali e tv di Stato: la politica era una conseguenza, un derivato, di tutto ciò. Importante, ma pur sempre un derivato. Protagoniste di questa battaglia erano alcune élite politico-culturali ben definite e contrapposte, mentre gli elettori erano un soggetto prevalentemente passivo: dovevano solo essere convinti. Oggi il quadro è totalmente cambiato. La fine delle ideologie ha trasformato il concetto stesso di egemonia, mentre il cittadino - prima attraverso l’apertura del mercato televisivo ai privati, poi ancor di più con l’avvento dei social - ha assunto un ruolo del tutto diverso. Sceglie, interagisce e, assai più di un tempo, condiziona la politica. E lo fa attraverso strumenti estremamente rapidi e immediati, come il telefono cellulare. Il premio Nobel per l’economia Daniel Kanheman è stato chiaro: il pensiero veloce ha avuto il sopravvento sul pensiero lento. Di conseguenza, anche il messaggio politico e gli strumenti di diffusione cambiano, perché si fa presa sulla capacità di seduzione, fatta di codici di linguaggio immediati e semplificati. Risultato: il ripetersi di queste situazioni riflette le mutazioni attuali, ma anche l’incapacità di leggere le dinamiche attuali. E allora ci si rifugia nel passato, perché non si interpreta il presente. Questa la pecca più preoccupante dei politici di oggi. Ma che cosa è cambiato rispetto alla “prima repubblica” (terminata nel 1992 con Tangentopoli) e alla classe politica che la contraddistingueva? C’erano intanto i funzionari di partito, ossia persone che si “facevano le ossa” all’interno delle sezioni dei partiti, le quali facevano carriera in base al tesseramento che erano riuscite a conseguire per poi candidarsi alle elezioni. Metodi che saranno stati democraticamente opinabili, ma che avevano favorito il boom economico del nostro Paese e l’ingresso nel G7 fino allo scandalo di Tangentopoli, che provocò uno sconquasso all’interno dei partiti con la sola eccezione del vecchio Pci, già scisso in Pds e Rifondazione Comunista e poi divenuto Ds nel ’98, per cui non esisteva più la parola “partito” nella denominazione dei vari movimenti politici. Il primo governo della “seconda repubblica” è stato quello guidato da Giuliano Amato, poi Presidente del Consiglio diverrà Carlo Azeglio Ciampi e nel 1994 si registrerà il vittorioso ingresso sulla scena di Silvio Berlusconi, il cui primo governo è stato di breve durata, con Lamberto Dini premier a inizio 1995 prima di Romano Prodi. Un’altalena continua Berlusconi-Prodi-Berlusconi-Prodi, che ha rispecchiato i rispettivi schieramenti fino al 2011, quando il timone dell’esecutivo è passato a Mario Monti. In questa sequenza sono riassunte le prerogative di una politica che si era affidata a manager e ai tecnocrati, sperando in quei risultati migliori che invece non sarebbero maturati, specie sul versante economico. La politica deve allora tornare in mano ai partiti? Il tentativo di un rispolvero della “prima repubblica” era stato fatto con la nascita nel 2007 del Partito Democratico (con il ritorno, quindi, della dicitura di “partito”), che nel 2013 vincerà le politiche e manderà alla guida del governo tre esponenti provenienti dalla propria scuola: Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Renzi aveva capito che occorreva una classe politica giovane e in nome della sburocratizzazione aveva puntato tutto sulla riforma costituzionale, rimediando la sconfitta nel referendum del dicembre 2016. Eravamo già nella “terza repubblica”. La “quarta repubblica” ha preso spunto dall’esito elettorale del 2018: maggioranza relativa al Movimento 5 Stelle, nelle cui file vi sono molti novizi della politica, mentre alle Europee del 2019 il primo partito è la Lega del nuovo corso chiamato Matteo Salvini. Il popolo italiano vede in lui una persona rappresentativa e più vicina, per cui trionfa lo slogan “Uno di noi” ed è questo ciò che conta; l’esperienza politica o manageriale, le capacità e le conoscenze passano in secondo piano. La politica italiana si è incanalata in un tunnel pericoloso di incompetenza dove si pensa più a urlare che a fare, rinchiudendosi sempre più dentro i palazzi e di non stare più a diretto contatto con la gente, creando una sorta di “casta” che ha provocato questo distacco. L’assenza della vecchia scuola di partito, nella quale analizzare la politica attraverso la storia, è a mio avviso la causa principale che ha generato un netto scadimento di qualità: a volte, chi parla dimostra di non possedere il necessario retroterra culturale e allora si trincera sotto un altro slogan (“I tempi cambiano anche in politica”) per coprire quelle che di fatto sono le proprie lacune. Non avendo una base solida ed essendo diventata la politica il mezzo con il quale risolvere la propria situazione (pensiamo a quanto percepiscono i consiglieri regionali, ma anche i presidenti di associate e consorziate messi dal partito spesso come “contentino”), l’obiettivo principale è divenuto quello di mirare alla poltrona e quindi tutto ciò scatena una competizione che dapprima è con il collega di partito e poi con l’avversario politico. Nella logica degli interessi personali, anche le ideologie sembrano andare a farsi benedire, per cui da un dissidio interno si formano altri movimenti che pensano subito a contarsi per capire se possono incidere con i numeri, oppure altri esponenti cambiano bandiera come nel calciomercato estivo. Dispiace poi che – in nome dell’audience – anche quando si trattino argomenti seri si sconfini nei toni adoperati e nei termini del confronto, ricorrendo persino alle offese e utilizzando l’arma del “gossip” e altri sistemi di basso profilo, o colpi bassi come si chiamano. Un tempo, la politica si portava appresso i crismi della sacralità nei modi e nelle parole. E poi, i canali di comunicazione: ogni strumento ha i suoi “pro” e i suoi “contro”, per cui avranno avuto i loro difetti i tradizionali comizi in piazza nei quali il popolo doveva applaudire oppure fischiare per preciso ordine di scuderia, così come anche il boom mediatico attraverso le televisioni, che costrinse l’allora presidente Oscar Luigi Scalfaro a varare la legge sulla “par condicio”, ma allora cosa dire degli strumenti di oggi, i social, che ci collocano in una sorta di campagna elettorale permanente, fatta di “mi piace” quando non vi sono sfoghi al limite della denuncia? Una caccia continua all’allargamento del pubblico e un sondaggio senza fine a suon di “like”. L’imbarbarimento della politica rischia di diventare irreversibile se da una parte continua il menefreghismo e dall’altra il voto di protesta, per cui mi reco alle urne non perchè abbia in mente un’idea precisa, ma solo per il gusto di mandare a casa questo o quell’individuo che ha fatto promesse senza mantenerle. Oppure non voto quel candidato non perché lo ritengo un incapace, ma perché non mi sta simpatico: succede anche questo. Alla faccia dei contenuti e della serietà, il distacco è figlio di logiche simili e allo stesso tempo è il pretesto giusto per girare alla larga. Capite bene allora che la politica non possa ricondursi a una questione prettamente umorale o all’aspetto “seducente” al quale ho fatto riferimento in precedenza. La politica è molto di più: è “l’arte di saper amministrare” e soltanto per il nobile significato letterale che assume dovrebbe essere un contenitore di proposte. La bontà dovrebbe quindi riguardare la valutazione di queste proposte, senza mettere la velina sulla persona che le ha avanzate. Una solida preparazione sarebbe pertanto consigliabile a chi vuole impegnarsi in politica, semprechè decida di farlo per il bene della comunità. Ma siamo sicuri che ai nostri “politicanti” interessa veramente il bene del nostro Paese, delle nostre Regioni e dei nostri Comuni?

Redazione
© Riproduzione riservata
19/02/2021 11:15:41

Punti di Vista

Imprenditore molto conosciuto, persona schietta e decisa, da sempre poco incline ai compromessi. Opera nel campo dell’arredamento, dell’immobiliare e della comunicazione. Ha rivestito importanti e prestigiosi incarichi all’interno di numerosi enti, consorzi e associazioni sia a livello locale che nazionale. Profondo conoscitore delle dinamiche politiche ed economiche, è abituato a mettere la faccia in tutto quello che lo coinvolge. Ama scrivere ed esprimere le sue idee in maniera trasparente. d.gambacci@saturnocomunicazione.it


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